la Repubblica.it pLo zio sociologo del tifoso morto dopo i tragici fatti della finale di coppa Italia, ripropone in un libro (Dante & Descartes) l'analisi dei fatti, sullo sfondo del mondi ultrà e dei media, nella speranza che nella Napoli lontana dai salitto del potere qualcosa possa veramente cambiare

La vicenda che ha portato alla morte di Ciro ha generato una catarsi. Scampia e Napoli sono divenute un tutt’uno, scrollandosi di dosso luoghi comuni e vittimismo. Ma a differenza della cittadinanza, continua a esserci una fetta della nostra politica che non riesce ad identificarsi con l’anima vera di questa città, non riesce a essere classe dirigente. La notte è appena calata sul piazzale che porta il nome di Ciro, all'ombra delle Vele. Vincenzo Esposito si sfila la cravatta di Marinella indossata per il rito collettivo dei funerali, accende il pc e inizia a scrivere. La riflessione a caldo sulla scelta dei consiglieri comunali che proprio nel giorno del lutto non seppero rinunciare alla festa organizzata a Palazzo Reale per i cento anni del Re delle cravatte, diventa il punto di partenza per un libro sull'omicidio di Coppa Italia. In “Ciro Esposito, ragazzo di Scampia” (Dante & Descartes, 133 pagine, 10 euro) “lo zio Enzo”, come lo chiamano nel quartiere, non ripercorre solo la tragica vicenda familiare. «Qui – spiega l'autore – la mia figura di sociologo si sovrappone a quella di semplice parente della vittima e inizia un percorso di analisi degli avvenimenti oltre che del panorama ultrà italiano». Vincenzo lo fa selezionando 24 articoli pubblicati nel corso dei 53 giorni di agonia del 29enne. Ci sono, tra gli altri, i contributi di Erri De Luca, Aldo Masullo, Luigi de Magistris, Luca di Bartolomei (figlio dell'indimenticato capitano della Roma suicida nel 1994), del cardinale Crescenzio Sepe.
Punti di vista diversi per provare a fare luce sui tanti aspetti che questa storia racchiude, a partire proprio dal corto circuito dei media, che nell'immediatezza della sparatoria, bollano l'aggressione come un regolamento di conti tra camorristi. Sarà pur vero che spacciano droga in qualche strada di Scampia. «Ma è meno offensivo dello spaccio di notizie false – scrive Erri De Luca nella prefazione – Ciro e i feriti con lui nell'attentato vengono piantonati in ospedale da uno Stato che non ha saputo difendere le loro vite e vuole farle passare per colpevoli. Solo la forza d'animo del quartiere prima, della città subito dopo, riesce a stracciare in faccia al mondo le carte false, a ristabilire la minima decenza della verità».
Del covo dell'estrema destra lasciato inspiegabilmente scoperto dalle forze dell’ordine infatti si parlerà solo successivamente. Le aperture dei telegiornali sono dedicate a Jenny 'a carogna e al colloquio con Marek Hamšík. Il capo della Curva A lascerà lo stadio subito dopo il fischio d'inizio per raggiungere Ciro al policlinico Gemelli. Se ne accorgerà solo la famiglia Esposito. «Ai funerali – ricorda il giornalista del Mattino Pietro Treccagnoli – nella piazza dei Grandi Eventi del quartiere nord della città intitolata spontaneamente, senza passare per commissioni toponomastiche e con tanto di insegna di marmo, proprio a Ciro Esposito», Antonella e Simona invitano gli ultrà a “sotterrare la violenza”.
Ma chi sono questi ultrà? Vincenzo non li conosce. E adesso che Ciro è morto per una stupida partita di pallone, i “fedeli alla tribù”, per dirla con John King, decide di studiarli. Vuole parlare con loro. E allora prende l'auto e viaggia: Bergamo, Brescia, Firenze, Ancona. «Ho incontrato i duri e puri delle curve d'Italia – rileva – quando ho detto loro che dovevamo lottare contro la violenza mi hanno detto di evitare il buonismo. Allora ho cambiato prospettiva, ho cercato di comprendere le dinamiche del tifo. Mi sono reso conto che in una società come la nostra, nella quale prevalgono l'effimero e il vuoto, il tifo è diventato una delle poche forme di identità sociale rimaste, anzi la più importante. Identità territoriali che si sviluppano attraverso rituali che dobbiamo provare a capire se vogliamo risolvere. La repressione, da sola, non serve. Se vogliamo provare a debellare la violenza, dobbiamo condurre una battaglia per aprire gli stadi, renderli fruibili, prendere atto che la violenza è insita nel meccanismo simbolico che gli ultras si sono scelti, e bisogna ricollocarla in un sistema allegorico che neutralizzi le spinte violente usando gli stadi, trasformandoli di nuovo in un'arena simbolica».
Al centro della trama del libro però, c'è Scampia. La sua componente migliore. «Che non fa notizia e non va in televisione – scrive Dario Del Porto di Repubblica – una Napoli lontana dai salotti e dal potere. Un mondo cresciuto proprio ai piedi delle Vele, le stesse dove un quarto di secolo fa Giovanni Paolo II invitò ad organizzare la speranza ma dove, da allora, poco o nulla è cambiato davvero». Eppure da quel maledetto 3 di maggio ha iniziato a soffiare una lieve brezza di cambiamento. «Io ho un sogno – dice ancora l'autore – che le ceneri di Ciro possano essere il nutrimento dal quale Scampia, Napoli, possano rinascere come l’Araba fenice e, come l’Araba fenice, affermare: “Dopo la morte torno ad alzarmi”».
Luca Monaco e Lorenzo D’Albergo

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