Passano gli anni, migliora la dotazione di risorse delle regioni meridionali del nostro paese, migliorano anche le loro possibilità di governance“ grazie alla elezione diretta di governatori e sindaci ma, ciò nonostante, quest’area del paese continua ad arrancare, finendo recentemente addirittura all’ultimo posto fra le aree destinatarie dei fondi europei. C’è, dunque, qualcosa che non va, e per capirlo occorre voltare pagina, osservare il sud dell’Italia da altri punti di vista e, soprattutto, adottare metodi diversi di analisi. È questa la tesi di fondo del libro “Innovare il Mezzogiorno” (Guida Editori 2008), promosso dalla AISLo (Associazione Italiana per gli Studi sullo Sviluppo Locale) e curato da Vincenzo Esposito, con interessanti contributi di Mariano D’Antonio, Paola De Vivo, Enzo Giustino, Alfonso Marino, Mario Parente, Alfredo Budillon e Giuseppe Zollo, un gruppo di studiosi da tempo osservatori dell’economia e della società meridionale.
Un libro interessante sia per le accurate analisi sugli insuccessi, totali o parziali, delle politiche di sviluppo degli ultimi decenni (Esposito, De Vivo, Giustino, Marino e Zollo), sia per l’attenzione che viene posta alle cause di questi insuccessi (D’Antonio), sia infine per l’apertura ad una riflessione coraggiosa sul conformismo che ha caratterizzato in tutto questo periodo la stessa letteratura sul Mezzogiorno (Parente).
Un libro, insomma, in cui si respira un’aria nuova e che apre anche qualche squarcio nelle immagini convenzionali del Mezzogiorno e dei suoi problemi.
Due punti caratterizzano questa “aria nuova” che filtra dalle pagine del libro. Il primo riguarda l’annosa questione della sufficienza o insufficienza delle risorse materiali di cui dispongono le regioni meridionali, e qui D’Antonio osserva con grande chiarezza e con pochi ed essenziali dati, che se in queste aree qualcosa è mancato negli ultimi venti anni, non si tratta sicuramente delle risorse materiali, quanto piuttosto di quelle sociali e culturali, (“capitale istituzionale” e “capitale sociale”), cioè di quelle risorse immateriali senza le quali la gestione di qualunque dotazione pubblica è oggi fatalmente destinata all’insuccesso. Il secondo punto è invece quello sollevato da Parente che, dopo aver sottolineato il conformismo linguistico che caratterizza buona parte della contemporanea letteratura meridionalista (“…gran parte dei lavori sul Mezzogiorno affogano letteralmente in un linguaggio ripetitivo, inespressivo e quindi banale…”), pone il problema della necessità di osservare la realtà meridionale da una nuova angolazione, quella della sua struttura politica latente e dei rapporti tra questa struttura ed i singoli individui. “Qui - scrive Parente - è il nodo ed il punto centrale del Mezzogiorno: la società, o meglio il sociale organizzato o meno, non ha nessuna autonomia, anzi è stato privato di qualunque autonomia […..] Basterebbe già questo per rendersi conto che il problema del Mezzogiorno non è prioritariamente un problema economico. Quindi la questione sviluppo va affrontata su un piano diverso da quello dei piani, dei programmi e dei progetti fino ad ora conosciuti e che sono il fiore all’occhiello delle Regioni e dei Governatori regionali. In poche parole della struttura portante dell’antidemocrazia nel Mezzogiorno”. Una riflessione forse non nuova, ma posta con grande chiarezza e che suggerisce per il Mezzogiorno l’immagine inquietante della società centralista e totalitaria, qualcosa di molto simile ai modelli collettivistici delle “società senza mercato”.
[Gerardo Ragone, Innovare il Mezzogiorno, Il Corriere del Mezzogiorno, Mercoledì, 16 dicembre 2008]