La Campania dagli anni settanta ad oggi ha visto il susseguirsi di profonde trasformazioni nei suoi assetti industriali. Aziende significative hanno subito pesanti processi di ridimensionamento, interi settori industriali sono scomparsi, di converso molte piccole e medie imprese hanno sviluppato processi dinamici di crescita. Dall’intreccio di questi processi, emerge un quadro variegato, con luci ed ombre. Su questi temi Novus Campus ha promosso un forum con Gianfranco Alois, assessore alle politiche industriali della Regione Campania; Giovanni Lettieri, presidente dell’Unione degli Industriali di Avellino; Ugo Marani, docente di economia, presidente dell’Ires Campania; Lino Grosso, responsabile relazioni esterne della Marotta Advanced Technology e Luigi Giamunto, Imprenditore tessile, amministratore unico di Parco Moda.
Vincenzo Esposito: Molti osservatori economici ritengono che con l’avvio del primo importante ciclo di ristrutturazione industriale, quello avvenuto alla fine degli anni Settanta, la Campania sia stata investita in misura maggiore rispetto all’intero Paese, da un lento e inarrestabile processo di declino industriale, condividete questa opinione?
Giovanni Lettieri: onestamente, non credo che dagli anni Settanta sia iniziato questo declino delle attività industriali in Campania; forse si è assistito a qualcosa di simile su Napoli città, perché, come abitualmente avviene, abbiamo fatto coincidere lo sviluppo industriale di Napoli con l’Italsider, e questo purtroppo é il peccato veniale che ci portiamo appresso quasi tutti noi napoletani. Se continuiamo a credere in questa cosa, allora, probabilmente, nella città di Napoli, forse è anche giusto, c’è stato un certo decentramento delle attività industriali, una delocalizzazione delle attività industriali con la chiusura, negli anni successivi, di alcuni siti importanti tra cui l’Italsider. Secondo me, questo è un esatto quadro di quanto avvenuto a Napoli. In Campania, invece, io ritengo che fino a qualche anno fa, attualmente stiamo assistendo ad un momento congiunturale negativo in tutta l’Italia e, in particolare, al Sud c’é stato un processo di industrializzazione caratterizzato da due fasi. Fino agli anni settanta c’è stata, una politica di industrializzazione attraverso interventi a pioggia che hanno portato poco sotto l’aspetto della sedimentazione di una vera cultura industriale, della nascita di filiere e distretti. Invece, dalla fine degli anni Settanta agli inizi degli anni Ottanta si è avuto più coscienza di quello che era veramente il potenziale industriale del Mezzogiorno e si è cominciato ad operare una politica valida che ha prodotto realtà come Melfi, ad esempio, che è nata successivamente ed è un esempio di industrializzazione riuscita. L’Irpinia, grazie anche alla tragedia che abbiamo avuto nell’area, cioè il terremoto degli anni Ottanta, nell’ultimo ventennio si è trasformata da provincia a vocazione prevalentemente agricola a provincia a vocazione industriale. Noi abbiamo fatto un convegno quindici giorni fa, nel quale c’era anche Fantoni, un grosso industriale del legno, che ha più stabilimenti, di cui uno ad Avellino, ed è rimasto soddisfatto, è contento, anzi la sfida è che lui sta raddoppiando lo stabilimento, si trova bene, l’area è perfetta, afferma che i dipendenti rispondono meglio che al Nord, il territorio ha grandi potenzialità. Non solo Avellino, ma anche Caserta negli ultimi venti anni ha avuto un forte sviluppo industriale. È evidente che anche da noi è accaduto quanto avviene in tutti i paesi industrialmente avanzati, cioè che la parte manifatturiera sta andando sempre più a delocalizzarsi e prende piede il terziario avanzato, i servizi alle industrie e l’alta tecnologia. Questo non vuol dire, però, che stia avvenendo una deindustrializzazione. Abbiamo invece un problema più serio che riguarda la competitività di cui parlerò più avanti.
Gianfranco Alois: condivido pienamente le osservazioni fatte dal Presidente Lettieri. In realtà, non possiamo parlare, di deindustrializzazione e neppure analizzare i processi di riconversione come se la realtà fosse statica, potesse essere studiata a tavolino: nella realtà, l’economia, è altalmente dinamica e fortemente globalizzata; i sistemi locali sono talmente interrelati con i processi internazionali che anche la Campania, nel bene e nel male, è ormai inserita nel contesto. Per esempio, quando l’economia va bene il tasso di esportazione per le imprese campane aumenta; quando l’economia internazionale va male il tasso di esportazione decresce, questo fornisce l’idea di come ormai la Campania è inserita nel contesto globale, soprattutto grazie alle piccole e medie imprese. Invece, sicuramente, è avvenuta una ristrutturazione della grande impresa piuttosto che una riduzione della forza e dell’impegno rispetto al Mezzogiorno. Qusto processo è stato controbilanciato da una crescita delle piccole e medie imprese. Infatti, negli ultimi tre anni il prodotto interno lordo industriale della Campania è cresciuto e, quando andiamo a leggere i dati disagregati, vediamo che cresce anche grazie all’aumento delle piccole e medie imprese, viceversa, in base al solo Pil delle grandi imprese, nella nostra regione avremmo registrato un decremento. Inoltre siamo di fronte ad un altro fenomeno importante: l’integrazione che avviene sempre più spinta tra la grande e la piccola impresa nella nostra regione, mi riferisco, ad esempio, al rafforzamento competitivo in alcune aree relative ai distretti industriali, sui quali abbiamo lavorato molto, perché io ritengo che le economie di filiera siano la sfida campana per ridare forza alla nostra economia. Le economie di filiera sono una cosa diversa dalle economie di distretto, che spesso inglobano le filiere, ma non necessariamente avviene il contrario. Per esempio, prendiamo il caso di un settore su cui ultimamente si è puntato molto, quello aeronautico: in Campania, abbiamo una serie di aziende che non sono localizzate nelle stesse aree geografiche, ma in più aree della regionee, però, ragionano tra loro, tra grande e piccola, e le piccole tra loro, per effetto di ciò le piccole crescono in termini di ricerca e di sviluppo, sono più autonome e meno dipendenti dalla grande impresa, per cui questo è certamente un segnale positivo, è un momento di grossa trasformazione che, se ben gestito ed inquadrato, rispetto ai distretti ed alle filiere, e viene adeguatamento sostenuto, può essere, a mio avviso, foriero di ulteriori evoluzioni positive.
Ugo Marani: Io vorrei inserire qualche elemento di pessimismo, giusto come provocazione intellettuale. Io credo che la deindustrializzazione sia un problema difficilmente univoco, visto che non esistono indicatori certi, univoci di quando e sé una struttura si deindustrializzi, l’indicatore più lampante potrebbe essere il tasso di attività del settore industriale, o la quota del valore aggiunto del settore industriale rispetto al Prodotto Intreno Lordo (Pil) complessivo, ma sarei d’accordo con il dottor Lettieri nell’affermare che l’indicatore sarebbe troppo striminzito, l’accezione di industria cambia nel corso del tempo: storicamente è determinata, per cui non è facile dare un’accezione univoca. Quindi con questo calo artificiale possiamo in ogni caso fotografare la struttura industriale campana: è chiaro che dietro la deindustrializzazione c’è un giudizio di valore, c’è l’idea che qualcosa che non va e la struttura va tendenzialmente depauperandosi. Io non so se sia depauperata, valuteremo tutti insieme, di certo è che negli ultimi venti anni è cambiata fortemente. Lei direbbe è cambiata nel senso che la grande impresa è venuta meno, è venuta meno nel comparto pubblico per un processo di crisi delle partecipazioni statali e nel settore privato per un processo che ha rimodellato la grande impresa campana. Il dato è sicuramente vero, su questo mi sentirei di dire, due dati sono sicuramente veri: la somma algebrica di cui lei parla, cioè meno addetti nella grande impresa più addetti nella piccola impresa fino ad adesso non è un gioco a somma zero. Se adoperiamo come criterio quello statistico, quale che sia indagine campionaria, anche quella dell’Istat, l’ultimo censimento ’96 etc., direi che la somma algebrica tra posti persi negli ultimi venti anni da un saldo negativo, è chiaro che noi possiamo ragionare per tutta la Campania, è chiaro che Napoli è diversa, ma sicuramente l’emorragia di posti che si è persa nella grande impresa non è stata del tutto compensata dal numero di addetti nella piccola. Un altro indicatore che sottoporrei alla vostra attenzione, che tutti gli studiosi considerano quando parlano di deindustrializzazione è il tasso di acefalia dell’impresa. In questo momento, l’impresa campana è corroborata da una struttura decisionale sufficientemente simile a quella presente venti anni fa? Il mio giudizio non è così ottimistico. Sottopongo alla vostra attenzione un altro fatto: storicamente la Campania è una struttura a forte dipendenza microeconomica, cioè da tutta Italia e dall’estero venivano una serie di piccole e medie imprese ad investire. Questo processo, secondo Bankitalia e Istat, si è sensibilmente arrestato. Il fatto che grandi settori strategici, come l’aeronautica, il trasporto ferroviario e le telecomunicazioni, abbiano avuto delle fortissime crisi, sulle quali forse non è il caso di tornarci adesso, mi fa pensare che si sia perso qualcosa sotto l’aspetto strategico, nel senso di capacità decisionale, una struttura industriale che fosse fortemente basata sulla manifattura e sulla piccola impresa. Non so se gli elementi progressivi siano gli stessi di venti anni fa, ma il giudizio è meno ottimistico di quello che il dottor Lettieri esprimeva.
Lino Grosso: nel suo ragoinamento ci sono degli spunti, due o tre elementi molto interessanti. Io ho una grossa difficoltà a dare una risposta compiuta nel senso in cui lei ha posto la domanda: negli ultimi venti anni? venti anni sono tantissimi, un tempo molto lungo.
Vincenzo Esposito: Vi abbiamo proposto una riflessione sugli ultimi venti anni perché siamo partiti dalla considerazione che negli anni settanta la Campania aveva sistemi di eccellenza in almeno tre settori: l’avionica, le telecomunicazioni e i trasporti che oggi nell’economia regionale giocano un ruolo fortemente ridotto. Inoltre, in quegli anni, vi era una situazione di Napolicentricità dal punto di vista dello sviluppo industriale che poi, come ha rilevato il dottor Lettieri, si è ribaltata a favore di un riequilibrio regionale.
Lino Grosso: posta in questi termini, la domanda è chiara. È vero quello che ha affermato il professor Marani, noi non abbiamo più questi tre poli importanti, erano tre raggruppamenti positivi dove c’erano le teste pensanti, e questa è la cosa che diceva il professore ed io sono pienamente d’accordo. Non abbiamo avuto nessuna politica a tutela di questi settori che sono andati fortemente in declino, non abbiamo più presenze strategiche, oramai localizzate in altre regioni. Questa fase è passata, recuperarla, secondo me, è impossibile e probabilmente neanche ci interessa più perché sostanzialmente oggi c’è un altro dato su cui dobbiamo riflettere: la dinamicità delle pmi, per questo sulle capacità occupazionali delle piccole imprese, non sono d’accordo che il saldo è zero.
Ugo Marani: Io voglio essere chiaro: dal 1981 al 2001 la quantità di posti che si è persa complessivamente nel settore industriale, non è stata compensata dall’occupazione realizzata dalle pmi, la somma algebrica, non è positiva.
Lino Grosso: atteniamoci ad un semplice dato, l’occupazione in Campania sta crescendo, ormai siamo passati dal 38% al 42%, certo, siamo ancora in ritardo rispetto al 60% dell’occupazione del Nord, ma è un dato incontrovertibile che l’occupazione è in crescita e con un tasso maggiore rispetto al Nord. È verissimo che le grandi imprese stanno delocalizzando ma, allora, se l’occupazione cresce, quì qualcuno sta assumendo queste persone: sono piccole imprese di servizi, microimprese di vari settori che stanno venendo fuori. Purtroppo, e sono d’accordo con Marani, quando parliamo di piccole e micro imprese parliamo di diecimila imprese che arrivano a cinquanta dipendenti e dal punto di vista produttivo vanno benissimo. Siamo in quest’ordine di misura. Queste imprese fanno molto bene per il rilancio della nostra economia e dell’occupazione. È un tessuto imprenditoriale che, partendo da Napoli, ormai si sta diffondendo in tutte le province in maniera capillare; questo è un processo molto importante, purtroppo sono piccole e medie imprese. Questo è un dato chiaro ed evidente sul quale forse più tardi dovremmo soffermarci nella discussione e nel dibattito. Spero che l’argomento successivo sia la competitività, un discorso sul quale, ovviamente, le piccole e medie imprese sono in difficoltà.
Luigi Giamunto: anche io vorrei riallacciarmi a quanto è stato già detto. Concordo pienamente con quanto è stato detto da Alois e da Grosso. In effetti, negli ultimi venti anni noi abbiamo perso la grande industria. Quella che lavorava per i grandi enti, in un certo qual modo assistita e quella che, probabilmente per motivi di competitività, non ha più trovato più interessante lavorare nella nostra regione. Chiaramente c’è stato un fiorire di microimprese. Prima l’assessore ha parlato dei distretti industriali. Io ritengo siano una grande occasione di rilancio economico per la Campania. Noi abbiamo avuto una trasformazione naturale: dalla grande industria che svolgeva l’intero ciclo produttivo, per una questione di dinamica di mercato e di equilibri anche internazionali, si è passati, in un certo qual modo, dalla cultura della proprietà a quella dell’accesso al mercato, questo cambiamento ha portato ad una dinamica diversa e ad affrontare il mercato in maniera diversa, vale a dire che c’è la delocalizzazione delle fasi produttive per avere maggiore flessibilità del lavoro ed essere più presenti sul mercato; pertanto in Campania non sussistevano nemmeno le condizioni per partire, per una serie di questioni, non c’era la formazione, per una questione di cultura, per un fatto che fra imprese e politica non c’è mai stato un punto di convergenza per dialogare. Cosa che, invece, oggi abbiamo realizzato e che ha prodotto risultati significativi; quindi il dialogo con tutti, con i sindacati, con la Regione, che poi tutto si traduce in un Comitato di distretto, dove ci sono in gioco tutti quanti gli attori dello sviluppo economico. Vorrei portare l’esempio di un distretto, il sesto distretto di San Giuseppe Vesuviano, perché quando si parla di queste realtà bisogna andarci dentro, capire quello che c’è e di cosa ha bisogno, altrimenti si opera per luoghi comuni rischiando addirittura di prendere provvedimenti su qualcosa di sbagliato, su cose che poco si conoscono o si conoscono male. Per questo, con la Regione Campania, abbiamo commissionato uno studio alla Luiss di Roma sull’intero sistema industriale del distretto: una realtà che comprende otto comuni, 104 mila abitanti, e dove c’è la presenza di 8.425 imprese, prevalentemente tessili. La fotografia è estremamente positiva, di fronte a questo dato io ritengo che ci sia motivo di studio, di approfondimento, bisognerebbe mettersi tutti intorno a un tavolo, e dire: come mai abbiamo questo fiorire di imprese? C’erano delle particolari condizioni favorevoli? In che modo lavorano queste imprese? Quanto sommerso c’è e perché qui c’è il sommerso? Cosa bisogna fare per far emergere queste imprese? Che fatturato hanno? Si stima un fatturato di area di circa 10 mila miliardi delle vecchie lire, è un indotto, aziende di produzione in quell’area non ce ne sono, che si appoggia su altri distretti e vede circa centomila addetti diretti e indiretti, presenti nel sistema; quando si analizza un distretto si devono sommare tutte le componenti, vi sono ad esempio converter di tessuto, che prendono la materia prima e la fanno tingere al Nord, perché in loco vi sono pochissime tintorie, mancano le aree per costruire un’azienda. In sintesi: c’è stata la grande industria, che non è più presente per un insieme di motivi diversi, c’è un fiorire di piccole imprese grazie a dinamiche di mercato diverse, oggi in Campania abbiamo una forte crescita quantitativa di queste piccole e medie imprese che vanno accompagnate nel loro sviluppo attraverso una politica di sostegno da portare avanti con i distretti industriali.
Vincenzo Esposito: Quanto detto dal dottor Giamunto rafforza il giudizio che era implicito nella nostra domanda perché, proprio se guardiamo al settore tessile, settore nel quale abbiamo una forte concentrazione di fazonisti, è lecito chiedersi perché aziende che producono manufatti di qualità in conto terzi non riescono, all’interno di un tale sistema, ad emergere con una loro griffe? Inoltre, il dottor Lettieri poneva un problema molto importante, cioè il fatto che il sistema campano delle pmi cresce mentre l’area metropolitana di Napoli ha via via perso pezzi significativi di grandi imprese. Stiamo attenti perché, lo sviluppo locale, che va sostenuto e incentivato in tutte le sue forme, non può essere però esaustivo dello sviluppo regionale perché, i sistemi produttivi locali incentrandosi prevalentemente, come è giusto che sia, su una rete di pmi, hanno il limite di non riuscire singolarmente e come sistema a raggiungere la massa critica necessaria di investimenti in grado di attivare processi virtuosi di ricerca e sviluppo, che oggi solo la grande impresa è in grado di impegnare. Per questo abbiamo un sistema di eccellenza che però non riesce ad emanciparsi, emergere e competere con proprie griffe, un marchio consortile, un sistema di distribuzione. È quì, quindi, il nocciolo del problema posto dal dottor Lettieri, quello della competitività del sistema e l’individuazione di buone pratiche per rilanciare massicciamente le attività di ricerca e sviluppo. Questa difficoltà sono riconducibili solo ad un problema di ordine nazionale, il rischio di declino denunciato da più parti, o sono anche il cascato di specificità tipiche della nostra regione che le acuiscono ancor di più?
Gianfranco Alois: Vorrei attenermi all’ultima considerazione, cioè che solo la grande impresa può fare sviluppo. Ciò è vero da un punto di vista concettuale perché la grande impresa lo ha sempre fatto e lo continua a fare, ed è anche giusto che in futuro lo faccia sempre più. L’esperienza degli ultimi tre anni mi ha convinto che la presenza della piccola impresa, dunque, dello sviluppo locale, oggi è determinante sia per attrarre nuove grandi imprese e sia per il mantenimento della grande impresa sul territorio, perché la subfornitura, la funzione di servizio della piccola impresa rispetto alla grande diventa per quest’ultima fondamentale. Nel settore aeronautico, un altro settore sul quale nell’ultimo periodo ci siamo molto concentrati, Alenia, Avio ed altre restano qui finché hanno un servizio qualificato da parte delle piccole imprese locali del settore aeronautico che gli offrono servizi non solo più in termini di trasformazione, ma proprio in termini di proposta di prodotto. Proposta di prodotto che nasce dalla ricerca all’interno della piccola impresa, per cui la piccola impresa cresce anche in termini di proposizione e di idee proprie e quindi anche di ricerca propria, fornisce un servizio alla grande impresa, entra in linea, rafforza questa sua posizione competitiva, che è la posizione competitiva dello stabilimento dell’unità produttiva campana rispetto alle altre unità produttive non campane. Perché se l’unità produttiva campana è competitiva con i rapporti con la grande impresa lo scenario non pone problemi. Sotto questo aspetto volevo integrare l’osservazione e dire che il distretto non è solo un luogo di aggregazione d’impresa, ciò era vero fino ad alcuni anni fa. Negli ultimi anni, l’accompagnamento messo in campo dall’ente regionale, attraverso la promozione di azioni, come la creazioni di consorzi, l’aggregazioni d’imprese, anche attraverso contributi e finanziamenti ed una politica di grande incentivazione con finalità chiare, ha avviato la stragrande maggioranza della massa critica all’interno del distretto, ad uscire dalla fase del fazonismo, della dipendenza da marchi terzi per accompagnarla attraverso la realizzazione di marchi propri ed una politica di distribuzione sui mercati internazionali, a superare l’esportazione dei prodotti, e internazionalizzare le imprese, che è un concetto ben diverso in termini strategici. Inoltre, vorrei soffermarmi su come abbiamo inteso noi la politica di distretto: certo risorse finanziarie, ma impostate ed offerte in modo diverso rispetto al passato, non solo risorse per l’azienda, per l’acquisto macchinari, le classica procedura 488, ma soprattutto risorse per le infrastrutture di distretto, per le aree industriali per permettere a un numero significativo di aziende che decidano di allocarsi in quell’area di poter realmente concentrare nell’area industriale tutte le loro attività. Anche gli alti enti territoriali dovranno fare, e sono convinto che la faranno, la loro parte: attivare risorse per la formazione, per l’internazionalizzazione e la ricerca; quindi un programma di distretto per portare avanti dei valori non solo materiali, in termini di investimenti, ma anche immateriali, in termini di conoscenze sul territorio. Sembra lapalissiano affermarlo, ma finora politiche integrate, in questo senso, in certe aree non sono mai state fatte, dalla ricerca usciva fuori proprio questa necessità e su questo abbiamo creato il dialogo con tutti gli attori.
Luigi Giamunto: La politica di distretto che sta portando avanti Alois rappresenta un’occasione storica, perché finalmente la politica svolge il ruolo che gli compete, cioè quello di indicazione, accompagnamento e controllo. Voglio raccontare le cose fatte, non quelle che si potrebbero fare. Alois ha incoraggiato le aggregazioni di imprese, abbiamo creato dei consorzi, il primo è stato il mio, altri consorzi sono nati nella nostra area e, considerato l’individualismo che regna tra gli imprenditori, aver realizzato le prime aggregazioni di imprese che si mettono insieme e condividono degli obiettivi comuni è un fatto storico. Abbiamo puntato tutto sulla formazione, una formazione sul campo, dando indicazioni anche all’interno del comitato di distretto. Al contenitore abbiamo aggiunto i contenuti: formazione, aree verdi, aree per le imprese. Oggi abbiamo consorzi pronti ad investire circa 500 miliardi di vecchie lire. Sulla formazione, insieme ai sindacati, abbiamo messo in piedi un programma di formazione già presentato alla Regione su un pit approvato. In relazione all’internazionalizzazione, tenendo conto delle cose che diceva prima Alois, è il momento di passare dalla proprietà all’accesso, far conoscere un sistema produttivo, non più la singola impresa, oggi non è più necessario, disporre di una filiera in tutte le sue componenti ma dei punti di forza per cui si passa dalla materia prima al prodotto finito in tempi molto rapidi, con estrema flessibilità, questo è un discorso importante. Si parla di marchio collettivo, di azioni promozionali; insieme abbiamo fatto la terza fiera, ormai l’unica fiera che si fa in Italia è quella del Puntomoda, è stato difficile, non ci saremmo riusciti se non fosse stato per l’assessore alle attività produttive che ha creduto in questa iniziativa. Abbiamo avuto anche il riconoscimento sulla piazza di Milano, di essere il terzo polo della moda, abbaimo portato compratori da 25 paesi di tutto il mondo, che conoscevano Napoli solo per i brand già affermati, una realtà molto diversa da quella che si trova all’interno del distretto e che ha un’altra dinamica. Il lavoro che è stato svolto, come modello è stato vincente, sia livello di esportazioni che di guadagni. Io personalmente ho anticipato 12 milioni per far venire dei compratori giapponesi in Italia, che sono ritornati autonomamente nella seconda edizione. Abbiamo realizzato un evento importantissimo per l’intero comparto tessile, finalmente si è passati dalla subfornitura all’accesso diretto al mercato, al marchio. Per far fronte al nuovo mercato aziende piccole, con pochi dipendenti, si sono viste costrette a realizzare un depliant, dotarsi di un marchio, creare una organizzazione per la vendita, avviare una ristrutturazione interna. I picoli imprenditori iniziano a capire la necessità del dialogo con le università. Abbiamo messo in campo questo modello, abbiamo dato i contenuti e siamo ad un passo dal realizzare tutte queste belle cose. In quest’occasione, devo esternare una mia preoccupazione perché adesso c’è bisogno di mettere ordine e di razionalizzare ciò che è nato in modo spontaneo. Non abbiamo nulla da inventarci in Campania. Oggi, però, corriamo un grosso rischio, al di là di quello costituito dalla burocrazia, che si muove in modo trasversale e rischia di rallentare l’intero processo a dispetto del regolamenti, del por che, invece, ci impone di spendere in modo abbastanza veloce, quello che gli enti locali ostacolino il consolidamento del processo. Ho la preoccupazione che gli enti locali, i comuni in modo particolare, ritengano che definiti i contenuti e la progettualità d’impresa, essi possano pensare di gestire il processo autonomamente, che possano assegnare indifferentemente le aree, magari all’amico di turno, annullando, quindi, tutta la progettualità messa in campo e gli sforzi fatti dal comitato di distretto e dal tavolo di concertazione. Questo e il rischio che volevo denunciare.
Giovanni Lettieri: Faccio un piccolo passo indietro per tornare sul tema principale. Dobbiamo perdere una brutta abitudine che, purtroppo, abbiamo noi napoletani: confondere Napoli con la Campania. Parliamo di Napoli o parliamo di Cam-pania? Se parliamo di Napoli, il problema è quello che ci siamo posti all’inizio, purtroppo è così, non si può non condividere, ma è anche giusto che una città come Napoli passi da vocazione industriale ad altri tipi di vocazioni più evolute?
Ugo Marani: Si tratta purtroppo di una forma di provincialismo, lo dico per chi critica Napoli come struttura campanocentrica, radicata in noi, la nostalgia del ruolo di Capitale. Identificare tout court Napoli e la Campania è un grave errore. Lo facciamo perché abbiamo un tasso di provincialismo ormai radicato dal 1799.
Giovanni Lettieri: Napoli ha la necessità di trasformarsi, come è accaduto per tutte le grandi città, ad esempio Milano, o la stessa Roma, o per andare all’estero Parigi. Se noi parliamo di disoccupazione globale, per la Campania la situazione è sostanzialmente diversa. Come dicevamo prima, dalla fine degli anni ’70 ad oggi la disoccupazione globale è diminuita; ciò significa che qualcosa è stato fatto. La colpa degli imprenditori, e qui parlo di Napoli, è stato che all’inizio del processo di privatizzazione delle aziende pubbliche del Mezzogiorno, noi imprenditori campani non abbiamo saputo approfittare delle nuove opportunità che questa situazione creava. Questa, secondo me è stata la causa principale che ha portato allo spostamento dei centri decisionali di queste aziende da Napoli e dalla Campania verso altre aree del nostro Paese. Si parlava di telecomunicazioni e di altri settori, la stessa sme, la cirio, noi imprenditori campani, dotati di scarso spirito di aggregazione, non abbiamo saputo approfittare di queste opportunità. Quello che succede, per esempio, con la opa di Gnutti, una società che raccoglie 350-400 imprenditori del bresciano, in cui c’è uno che gestisce e orienta, purtroppo in Campania non abbiamo avuto un’esperienza del genere, non abbiamo saputo approfittare del momento ed è successo quello che è successo. Però, nonostante ciò, io non sono pessimista sul Mezzogiorno, mi preoccupo di creare un territorio competitivo, che oggi non abbiamo ma, quello che sta succedendo negli ultimi anni, con questo governo che non ci ha aiutato, sta rendendo questo territorio ancora meno competitivo. I grossi sforzi che ci sono stati, hanno consentito la crescita che ha avuto la Campania dal 2001 fino al 2003. Questa cresciuta è dovuta ad una politica industriale corretta operata dall’assessorato, ma anche una politica industriale corretta messa in campo anche dal precedente governo, che è quello che dicono anche il presidente Bassolino e Alois, con il meccanismo automatico del credito d’imposta sugli investimenti. Io credo che per la prima volta nella storia dell’industria si é avuto un dato certo: l’azienda faceva gli investimenti e sapeva esattamente quando e quanto incassava per il beneficio che lo Stato forniva. Per l’azienda, non è importante l’entità del beneficio, ma i tempi certi dell’erogazione. Ripeto, quella è stata la prima volta nella storia industriale di questo Paese. La stessa 488 è un terno a lotto, anche se ha portato sviluppo in Campania. Vuol dire che, perlomeno, ne abbiamo saputo approfittare, ecco, qui io porrei bene la questione.
Ugo Marani: Io credo che il dottor Lettieri abbia centrato un paio di punti importanti. Nel mio discorso non c’è né Napoli versus Campania, né piccole imprese versus grande impresa. Alois precedentemente faceva un ragionamento giusto che io auspico sia portato sino in fondo, secondo me, dice metà verità, vediamo cosa dice: il problema di fondo della sopravvivenza della piccola e media impresa in Campania è quello del distinguo. Se io riesco a subfornire qui, ne determino le condizioni di sopravvivenza, che mi sembra un fatto importante. Siccome le condizioni di sopravvivenza sono competitivamente aggressive, io mi devo cautelare da qualcun altro che potrebbe potenzialmente essere a questa piccola impresa locale sostituibile. Questo significa due cose importanti: uno che la piccola e media impresa ha bisogno di una politica industriale locale che gli faccia saltare il discorso della pura competitività di costo, perché se il discorso si pone in pura competitività di costo ci sarà sempre un saggio di salario più basso che consentirà a quell’impresa di essere superata dal mercato. Secondo punto, io posso subfornire, però, il problema non può essere soltanto quello della commessa, ma deve vivere anche la grande impresa che fa committenza. Questa è l’altra parte della verità, cioè la politica industriale deve porsi il problema non soltanto di consentire che la piccola impresa del distretto sopravviva, ma che cresca bene.
Giovanni Lettieri: dovrebbero arrivare al primo livello di fatturato.
Ugo Marani: Gli inglesi le chiamano le established, quando superano il primo livello della competitività, hanno un minimo di permanenza sul mercato sono established. Mi preoccupa molto, ormai tutto si gioca sul fatto che piccolo è bello; io penso che piccolo è bello, ma piccolo è bello intorno a chi? Ecco la domanda che vi pongo: questi signori fanno commessa per conto di chi? Negli anni ’70,’80 e ’90, noi paradossalmente avevamo esattamente l’opposto, avevamo il committente ma non avevamo la piccola impresa che riusciva a lavorare per questi signori. Noi adesso stiamo costruendo una regione fortemente interrelata di piccole imprese che sono in grado di rispondere a qualcuno, ma chi è il committente? Ci siamo posti questo problema? Quali sono i settori di riferimento di medio periodo a cui questo tessuto di piccole e medie imprese può fare riferimento, perché, tornando a quando diceva Giamunto, dico senza cambio favorevole, senza griffe consolidate, lei riesce a tenere il mercato con un euro a uno e 56 sul dollaro per i prossimi tre anni, soltanto con una struttura di otto imprese? Ci sarà un minimo di darwinismo congiunturale prima o poi? Io mi pongo questo problema di fondo. Freud lo definiva il grande elefante rosa, quando diceva che c’era un problema talmente grande che il paziente non lo riusciva a vedere. C’è un problema di piccole imprese, ma c’è anche un grande elefante rosa. Chi fa commesse? noi sappiamo chi le riceve ma non, nei prossimi dieci anni, chi saranno i gran commiss delle piccole imprese campane. Io non ho la risposta a questo problema.
Lino Grosso: Noi abbiamo un problema serio, specialmente per il settore tessile, ma oramai generalizzato, il problema dei cinesi.
Ugo Marani: Il problema è che noi non dobbiamo competere con loro che fanno i jeans da un euro da vendere sulle bancarelle, noi dobbiamo fare un altro tipo di produzione.
Lino Grosso: Volevo un attimo concludere questa parte. Non conosco bene i problemi del tessile, ma sono da un ventennio imprenditore nel settore aerospaziale e conosco bene culturalmente questa realtà. Vorrei rispondere alla precisa domanda: perché il sistema di eccellenza, tessile, aeronautico spaziale e altro non riesce a fare il salto di qualità? Io direi di tornare su questo problema. Vi è stato questo declino ed è durato tantissimi anni, quindici o venti, ora siamo in una fase di ripresa, evidente nei numeri, nei fatti e nello spirito delle istituzioni, siamo in una fase di ripresa. Questi non sono fenomeni che da un giorno all’altro possono dare dei risultati: andare sul mercato con una nuova griffe o, per noi imprenditori aeronautici, con un nuovo aereo. Per consolidare questi processi sono necessari molti anni, ci vogliono decine di anni affinché questa rivoluzione dal punto di vista industriale consolidi dei risultati. Quello che sta avvenendo per la Regione e per il Meridione è una rivoluzione. Il Meridione ci crede, investe, ha fiducia in quanto sta avvenendo, ma i tempi sono questi. Quindi, la prima risposta è diamo tempo al tempo; facciamo in modo che resti il ruolo degli imprenditori e che alcune iniziative innovative e funzionali continuino a vivere e sostenere questo processo. Adesso lo voglio dire, non perché è presente l’assessore, nel nostro settore, quello aerospaziale, stanno avvenendo dei fatti importantissimi, ci sono delle aggregazioni importanti, come un consorzio di piccole imprese e, per la prima volta, registriamo un interesse delle istituzioni regionali e locali a sostenere queste iniziative non solo dal versante economico. Abbiamo bisogno di tutta una serie di iniziative e condizioni ambientali, a partire dalle infrastrutture fino alla possibilità di affacciarci all’estero per sostenere la crescita delle imprese con la formazione. In Campania abbiamo un consorzio importante per la formazione nel settore aeronautico. Nessun’altra regione ha un consorzio significativo per la formazione degli addetti al settore aeronautico. Nessuna regione italiana vede la presenza di un consorzio di piccole imprese aerospaziali, completamente autonomo dalla grande impresa. Questo è un passaggio importante, nel quale stanno avvenendo dei fatti e si incomincia a capire cosa sta avvenendo e il perché. Queste piccole imprese, non solo del settore aeronautico, e anche i consorzi stanno cominciando a crescere, a tirare fuori un prodotto, una proposta sul mercato che noi ci auguriamo diventi, poi, un prodotto; in questo modo potremo avere quello che lei chiama griffe delle piccole imprese. Io non conosco le problematiche del settore tessile, di come si arriva sul mercato con una griffe, immagino che non sia facile. Conosco, però, i problemi del mio settore, dove è difficile entrare per le barriere che i grandi committenti hanno creato. Proprio perché so che i grandi cercano di non far entrare assolutamente nessun altro competitor in questo mercato, so gli sforzi immani che stanno facendo le nostre imprese. Nonostante tutto, noi siamo in controcorrente, siamo in salita rispetto alle politiche di questo governo e questa è una cosa gravissima. Nel nostro settore il governo si è assolutamente dimenticato di cosa significhi industria aeronautica, sta andando contro gli interessi del Mezzogiorno.
Gianfranco Alois: Grosso dice una cosa molto importante: non stiamo chiedendo i soldi, noi ragioniamo. Nel loro settore il governo deve stimolare l’attività, attivando delle politiche di settore più forti, con la comunità europea e gli Stati Uniti, loro non vanno avanti più di tanto, se non c’è il traino della grande impresa, la piccola è in difficoltà.
Ugo Marani: È anche critico per la mancata adesione del governo al programma europeo? Questo è un fatto rilevante. I prodromi c’erano da vario tempo sulla vicenda, sarebbe inutile adesso ripercorrerli, però ci eravamo lasciati un grado di libertà, che è stato chiuso dalla decisione definitiva di non partecipare.
Lino Grosso: Siamo usciti da due programmi importantissimi, non solo da due prodotti, l’aeronautica civile e militare ed i lanciatori di satelliti. Abbiamo investito migliaia di miliardi per entrare in questi programmi, ci siamo entrati e, nel momento in cui bisognava siglare l’accordo ed iniziare, facciamo retromarcia e andiamo in America. Questo, nel settore aeronautico, è fortemente penalizzante, perchè noi da soli in Europa non ci possiamo più andare ma, viceversa, loro possono muoversi liberamente nel nostro settore.
Ugo Marani: Io lo chiamerei una proxy di deindustrializzazione.
Lino Grosso: Noi non possiamo andare nello spaziale, non possiamo entrare nel consorzio airbus…
Vincenzo Esposito: Una considerazione. Il motivo per cui fra l’altro abbiamo scelto voi come interlocutori deriva da un giudizio che ormai vede concordi tutti gli esperti e gli studiosi di sviluppo locale. Tutti sostengono che l’eccellenza industriale è determinata da due fattori: la burocrazia pubblica, possibile fattore di diseconomia o, quando è efficiente, volano di sviluppo per il sistema imprenditoriale ed il sistema integratodella formazione. I problemi posti precedentemente da Lettieri sono la vera polpa attorno cui discutere, come il sistema statuale passa da una situazione in cui si limitava ad erogare risorse, tra l’altro veniamo da una situazione in cui non c’era sviluppo perché arrivavano troppi soldi, ad una nella quale, invece, costruisce le caratteristiche sistemiche: se nessuno mette insieme gli imprenditori, questi non scopriranno mai che è necessaria una griffe.
Gianfranco Alois: Chieda a Lettieri quanta parte del nostro lavoro quotidiano dedichiamo a risolvere i problemi e le disfunzioni del passato. La 219, aree di Avellino che stiamo ora recuperando.
Vincenzo Esposito: Per quanto concerne l’area di Avellino, basterebbe fare un confronto con la Basilicata, una piccola Regione che decise di concentrare tutti gli investimenti in un determinato posto e i risultati degli investimenti a pioggia nel cratere e vedere cosa è successo. Per concludere la nostra conversazione vorrei farvi due domande. La prima: quali pensiate siano stati gli errori e le cose non fatte e quali quelle che si sarebbero potute fare; Infine, tre idee forza, tre cose da fare per rilanciare questa regione nel sistema europeo.
Giovanni Lettieri: Per rispondere alla prima domanda, io sono un meridionalista convinto per cui ho sempre lottato dicendo che quello che si riesce a fare nella nostra Campania e in tutto il Mezzogiorno costa più fatica rispetto a quello che si riesce a fare al Nord. L’esempio classico è che se un imprenditore, un avvocato o un professionista delle nostre zone va a lavorare a Milano riesce a fare molto di più rispetto agli altri. Ricordo che avevo uno stabilimento a Monza, e mi illudevo che lavorassero meglio rispetto ad altri stabilimenti. Sotto l’aspetto personale io credo di aver fatto abbastanza: sono un industriale di prima generazione perché i miei genitori non erano industriali, ho complessivamente 650 dipendenti, forse 700, dunque credo di aver fatto abbastanza. Forse potevo partecipare di più a questa fase di realizzazione, ma sono stato molto impegnato nel mio settore, quello tessile, ho risanato le Manifatture Meridionali, anche se mi è stato avverso il suo sindacato della zona per parecchi anni. Oggi fortunatamente ho un buon rapporto anche con loro. La cosa è stata molto sofferta perché con la collaborazione l’azienda si sarebbe potuta risanare molto prima. A Calitri, nella zona di Avellino ho un altro stabilimento. Onestamente, dal punto di vista personale, lavoro sempre molto da quando avevo 20 anni, per cui per quello che ho fatto come azienda non credo che possa riconoscermi delle colpe.
Vincenzo Esposito: Uno dei giudizi più crudi sull’imprenditoria napoletana è stato quello espresso da Ghirelli, il quale ritiene strano che Napoli è il simbolo della non volontà degli imprenditori napoletani di misurarsi. Il secondo, a mio avviso, è proprio, come dice lei, il non aver voluto mai osare, riferito ad un pezzo significativo dell’industria manifatturiera che lavorava con il pubblico e non ha mai tentato di crescere vivacchiando su effimere rendite di posizione che si sono dissolte al sole.
Giovanni Lettieri: Il problema dei napoletani è uno solo, noi abbiamo un grave problema: il napoletano quando deve fare qualche cosa in senso generale difficilmente si mette a pensare alle cose che deve fare, invece, se questa cosa la sta facendo un altro napoletano diventa un grande scienziato perché si adopera per fare in modo che quella cosa non la fa, oppure vuole farla lui prima dell’altro. È questo il motivo per il quale non ci siamo aggregati e non abbiamo approfittato delle privatizzazioni. Uno dice, guarda c’è questa cosa, ad esempio, prendiamo la Societa del risanamento, quella è stata una grande cosa, dice l’amministratore delegato di Pirelli, un napoletano, da un lato sono stato contento perché sono arrivato là e ho preso questa cosa, non ho avuto alcun intoppo, per cui mi è andata bene; dall’altro lato, dice, essendo io napoletano, non ho avuto fastidi: possibile non c’è alcun napoletano che è venuto solamente per dire guarda ci sto pure io , tu questa cosa non te la puoi gestire da solo devo partecipare a questa operazione, essendo napoletano questa cosa mi è dispiaciuta: come manager mi ha fatto piacere, ma come napoletano mi è dispiaciuta.
Ugo Marani: Io avevo capito lo spirito. Se lei riguarda criticamente a questi venti anni, ci sono stati dei momenti in cui all’imprenditoria campana chiederebbe di più? Prima parlava delle banche, Banco di Napoli, momenti in cui cesure importanti non sono state ascoltate?
Giovanni Lettieri: Il Banco di Napoli… Quando è successa la questione Banco di Napoli nessun napoletano si è fatto sentire, non solamente a livello dirigenziale. Io fui chiamato da Tommaso Iavarone che mi chiese di comprare quel 4%, avemmo una grande diatriba, perché lui disse: facciamo la banca mista di martelliana memoria. Queste cose diciamole! La banca mista è il futuro, l’impresa per andare bene deve essere coadiuvata e la banca per andare bene deve essere coadiuvata. Io all’epoca del Banco di Napoli, ho chiamato Gaetano Vuolo, Tommaso, ho chiamato tutti…
Ugo Marani: una cordata, facevate 3% voi e 3% loro dell’intero capitale…
Giovanni Lettieri: in quel caso è stato un po’ diverso perché c’è stata la corsa ad accaparrarsi le simpatie di chi stava distruggendo il Banco di Napoli…
Ugo Marani: il problema era che l’imi san paolo venne e disse a tutti noi siamo belli, bravi… Siamo al limite della legalità.
Giovanni Lettieri: siamo proprio nel penale perché è stata comprata a 60 mld è stata ricapitalizzata per 1200 mld, è stata venduta per 6000 mld. L’unico che non c’entra niente è il san paolo di Torino che ha sborsato 6000 mld. Una volta pagata questa cifra ha detto: permettete che qui comando io? Allora i napoletani vanno tutti a casa perché ho cacciato questi soldi. Ma la cosa che io mi chiedo è come mai nessun procuratore della Repubblica si chiede, ma perché una cosa che è stata comprata a 60 mld, dopo tre anni è stata rivenduta a 6000mld, ma che capacità hanno avuto questi per risanare le casse in questo modo?
Ugo Marani: plusvalore marxiano!
Giovanni Lettieri: nessun procuratore della Repubblica li viene a trovare? I napoletani dell’epoca per accaparrarsi le simpatie di Pepe, diciamo anche i nomi e cognomi, non volevano uscire sulla stampa a dire un momento, tu stai distruggendo il Banco di Napoli, cosa che io ho scritto in una lettera, tu stai distruggendo il Banco di Napoli, fermati un momento, invece tutti correvano ad accaparrarsi le simpatie di questo signore che ha fatto un lavoro che avrebbe potuto fare anche mio figlio, che all’epoca aveva 17 anni, il quale, se uno gli avesse detto vai là e liquida il Banco, non affidare più niente anessuno, poteva farlo tranquillamente.
Ugo Marani: L’Unione industriali voleva il 5% a 60 miliardi, pensa che rivalutazione a 6000 miliardi.
Giovanni Lettieri: Sono state follie, ma lo stesso risanamento, la cirio, la sme Solo io, ad essere sincero, per quanto riguarda il mio settore, sono stato anche abbastanza attivo. Io ho aquisito le manifatture meridionali nel 1992, l’eni, siccome c’era un terzo stabilimento, che doveva comprarlo Polli, un altro imprenditore, spinta dalla Cgil locale e da qualcun altro, disse di no, è saltato l’altro imprenditore salta anche l’operazione con Lettieri, io che già stavo dentro, in realtà somo stato letteralmente buttato fuori. Ho avviato una causa che è durata tre o quattro anni, alla fine, eravamo nel 95, ho avuto il sequestro dell’azienda. Come gruppo ho corso seri rischi, anche a livello economico, perché da un lato avevo un’azienda in fase di start up e dall’altro la mcm. Poi ho vinto la causa e sono entrato nell’azienda con la forza pubblica. Sono stato abbastanza impegnato a causa di queste cose. Oggi forse avendo un po‘ consolidato il gruppo, con un management ben assestato sul territorio, con vari stabilimenti, ho anche un’azienda in Veneto, mi sentirei di guardare anche ad altre sfide. Se si ripresentasse un’operazione come Banconapoli io farei più battaglie di quelle che ho tentato di fare all’epoca. Questa colpa come imprenditore napoletano la sento. Per il territorio invece c’è molto da fare, io sto portando avanti una battaglia perché se l’industria italiana vuole avere un ruolo in futuro in Europa, e se l’Italia deve avere ancora un ruolo industriale questo non può che essere il Mezzogiorno. Al Nord non ci sono più aree, non ci sono disoccupati, non ci sono persone da occupare; se entriamo in uno stabilimento il 60% degli addetti sono persone di colore, per cui non ci sono suoli, non ci sono terreni, le aree sono intasate. Se l’Italia vuole uno sviluppo industriale, questo lo dico agli interlocutori governativi, lo deve avere nel Mezzogiorno.
Vincenzo Esposito: Grazie ad una dissennata politica pubblica che vedeva gli investimenti al Sud principalmente legati al ciclo del cemento, per l’eterogenesi dei fini, oggi abbiamo un buon sistema di infrastrutture.
Giovanni Lettieri: Un mio collega di Brescia mi disse che per convincere i giovani ad entrare in fabbrica fanno i filmati nelle scuole. Io gli ho detto guarda tu devi cercare di convincere gli industriali a venire al Sud.
Ugo Marani: Il tasso di evasione nel triangolo veneto è infinitamente superiore alla media nazionale.
Giovanni Lettieri: Tutto al nero fanno là, cioè lo stilista che abbiamo noi mi dice se tu mi paghi senza fatturare io ti faccio risparmiare, tutti fanno così. Io e il mio commercialista stavamo in una piazza di sera a Pieve di Sacco, cercavamo un taxi per tornare in azienda, dice no ora ti accompagniamo noi, due persone in macchina, uno con i capelli lunghi. Io vorrei lavorare dice uno di questi. Va bene, ma se devo lavorare, devo lavorare al nero, perché già sono inquadrato da mio padre che fa un altro mestiere. Quando si parla della Campania!
Ugo Marani: Io vorrei porre ancora un quesito all’assessore. Se c’è bisogno contemporaneamente di due realtà diverse, la grande impresa e la piccola impresa, allora sono necessarie anche due forme di politica industriale differenti. Non vi sembra che vivere solo di distretti, di filiere, per inciso mi sembra che quelle individuate siano troppe, non si corre il rischio in futuro di avere lo stesso tipo di intervento molto poco selettivo come in passato? Se la Regione individua in Campania 12 distretti e 40 filiere non corriamo il rischio di disperdere la struttura di incentivi, siano essi finanziari o di consulenza, di formazione, così come è successo in passato? Punto primo. Abbiamo una grossa struttura di riferimento su cui lavorare, cioè le opzioni di fondo, non tanto dell’imprenditoria, ma del governo dell’economia campana da qui a dieci anni quali sono? il tessile? l’abbigliamento? la siderurgia? Voglio dire che le politiche industriali locali finiscono per essere molto frazionate, questo riprende anche un po’ le preoccupazioni che aveva lei prima.
Luigi Giamunto: Io ritengo che non sia necessaria una doppia politica industriale in Campania perché basta l’individuazione dei distretti industriali; così fornisco anche la risposta alla domanda se piccolo è bello, e che tipo di sviluppo può avere. Io dico che la piccola impresa nel settore tessile-abbigliamento in Campania può avere un notevole sviluppo, un grandissimo sviluppo, perché è passata direttamente dalla subfornitura alla produzione con i marchi propri e alla distribuzione sui mercati internazionali; pertanto trova una sua collocazione e non ha bisogno del supporto della grande industria, lavora autonomamente e superata la fase caratterizzata dal declino è entrando in competizione con le aziende più importanti, lavora per l’Australia. Io ritengo che ci possa essere sviluppo, attraverso la politica che abbiamo già messo in campo e che va in questa direzione. Perciò per me va benissimo, bisogna soltanto insistere. Forse c’è bisogno che ci sia qualcuno, una specie di commissario ad acta, che nelle aree dei distretti possa avere la possibilità, una volta individuati i programmi, di avere una capacità decisionale autonoma, perché la burocrazia è qualcosa che si muove in modo trasversale e quindi non riesce mai a fare un passo avanti senza fare tre passi indietro; c’è una dinamica di mercato che è talmente veloce per cui il passo dell’imprenditore è diverso rispetto al passo della burocrazia, più che sul piano politico su quello del funzionamento delle istituzioni, è la stessa discrasia che si registra a volte tra la giunta regionale e il consiglio regionale. Spesso ci sono alcune iniziative, che magari sono passate già per il Consiglio regionale, ad esempio una decisione all’interno dei comitati di distretto, già approvata per le vie strategiche, già fatto l’assegno dall’assessore Alois per il distretto, alla fine non si sa chi deve fare cosa e quando. Rispetto alla burocrazia, se potesse decidere la giunta regionale, probabilmente si troverebbe un punto di equilibrio, dall’altra parte non si sa, ci sono quelli che dicono, ma noi alla fine sono quattro anni che stiamo aspettando, ma cosa dobbiamo fare domani mattina? Ognuno poi dal suo punto di vista ha ragione. Quindi ripeto che la piccola impresa ha davanti una grande possibilità di sviluppo, il distretto va bene, anche il fatto che in Campania ci siano sette distretti industriali, di cui tre tessili uno alimentare e gli altri del polo calzaturiero e conciario. Sono distretti presenti già nelle coscienze delle persone, al di là del riconoscimento formale da parte della Regione. San Giuseppe Vesuviano è il centro, il motore, della zona vesuviana, il luogo dove c’è la commercializzazione, il momento di passaggio per la vendita per andare sul mercato. Poi, abbiamo la zona di Grumo Nevano, dove lavorano i cosiddetti fazonisti che lavorano in quell’area, già per sé c’è la filiera della filiera. Il vero problema, la grossa minaccia che abbiamo oggi, a causa della quale rischiamo di perdere il treno è quello della minaccia, come dicevamo prima, dei cinesi.
Vincenzo Esposito: Sui cinesi dobbiamo intenderci, le griffe affermate, in genere vendono prodotti realizzati in Thailandia e costi infimi e di discutibile qualità. Il cinese è competitivo con noi se non abbiamo la griffe e i prodotti di qualità, per i quali i ricavi sono talmente elevati che l’incidenza del costo del costo del lavoro è modesta. Quindi, se io faccio il vestito di scarsa qualità per andarlo a vendere nel negozio, il cinese arriva, con la sua bancarella, ad un quarto del mio prezzo a parità di qualità, viceversa se io faccio il vestito per andare nella boutique il cinese non mi fa concorrenza, perché in questo caso il costo del lavoro è totalmente ininfluente rispetto al valore aggiunto del design e della qualità.
Luigi Giamunto: In Cina il costo del lavoro è bassissimo; quindi operando con regole diverse, si determina una concorrenza sleale, perchè, ad esempio, noi difendiamo la proprietà intellettuale che è un valore dell’impresa, dall’altra parte non se ne parla proprio.
Ugo Marani: ad Istanbul c’è una strada nella quale si producono Lacoste false per il mercato di tutto il mondo, ed è tollerato dalle autorità locali.
Luigi Giamunto: si tratta del famoso mercato parallelo, mentre in Italia oggi si parla del problema, cosa strana, non si è mai investito sulla piccola impresa, o meglio, chi sedeva ai tavoli spesso rappresentava solo delle scatole vuote. Si deve cercare di spiegare queste cose nelle sedi opportune e portare i risultati ad un livello estremamente concreto. A proposito dei cinesi, abbiamo anche interpellato il personale della dogana, molti ritengono che il male sia nelle dogane in quanto pare che sdoganano la merce al di là delle quote, ai limiti della legalità. Ci sono molte lamentele da parte degli imprenditori. Mi ha chiamato…
Ugo Marani: può la corruttela spiegare un fenomeno di tale portata?
Luigi Giamunto: per me no, una cosa che costa tre là, in Italia costa dieci. Anche se si pagano le tasse, la differenza è sempre la stessa. Noi abbiamo perso trentamila posti di lavoro negli ultimi anni in Campania, trentamila. Il sindacato deve prendere coscienza e fare una battaglia estremamente concreta perché questa è un’emergenza, rispetto a problemi di più lungo termine, ma i trentamila dipendenti licenziati sono anche trentamila stipendi in meno che si uniscono ai gravi problemi che già abbiamo. La mia proposta è di non dare finanziamenti alle imprese, non serve a nulla, ma fare in modo di salvaguardare il made in Italy ed il made in Campania, valorizzare le nostre produzioni attraverso l’Agenzia della moda, creare un marchio collettivo della regione Campania e fare una fortissima promozione nel mondo che accompagni la nostra produzione. La seconda cosa che bisogna fare è creare una sorta di credito d’imposta verso i dipendenti, mi spiego dobbiamo fare in modo che gli stipendi, le buste paga siano più ricche, riavviare i consumi. Sappiamo bene che non si possono chiedere soldi agli imprenditori, ma fare un ponte in meno e dare la possibilità alla gente, a tutti di arrivare alla fine del mese privilegiando le spese made in Italy. Io immagino qualcosa di questo tipo, bisogna volare alto: io immagino che a fine di mese un mio dipendente mi venga a documentare, non so con ricevute, bollini, quello che sia che ha comprato della merce prodotta in Italia. Io gli rimborso materialmente la cifra e la porto come credito d’imposta, la posso scalare. Quello che fa male è che tutto lo sviluppo che si fa in Campania è più un fatto casuale, senza una strategia comune condivisa di medio e lungo termine. Mi piacerebbe approfondire ulteriormente questi temi perché io penso che possiamo fare lo sviluppo solo nel momento in cui, alla fine del mese, la gente ha qualcosa in più da spendere, rilanciando il made in Italy attraverso un’azione comune. La seconda cosa e concludo, è quelle delle famose occasioni. La Cina è un’opportunità, ma ad una sola condizione. Quando si parla di contrattazione internaziionale, questo è un mondo che non ci appartiene, spetta al governo prendere provvedimenti sulla contrattazione. Però la contrattazione riguarda solo poche importanti aziende. Se vogliamo andare sui mercati internazionali, dobbiamo andarci nel modo giusto. Il piccolo non avrà mai la possibilità di andare a vendere a un miliardo e quattrocento milioni di persone, però sarebbe bello. Immaginiamo che l’assessore Alois domani vada in Cina e propoga di aprire un grande mercato, tipo la rinascente, gestito da un consorzio aperto dove sul marchio avviene la concertazione, etc.. Se si aprisse questo grande centro commerciale, quindi con l’immagine italiana, il piccolo imprenditore che sta a Piazza Garibaldi, attraverso questa iniziativa, avrebbe la possibilità, i canali per vendere in Cina. Questo è quello che serve, il rilancio del made in Campania, rilancio di fatto, con la presenza fisica della Campania dei piccoli imprenditori: queste sono le grandi sfide che noi dobbiamo affrontare. Fare tutto ciò è facile a dirsi ed anche ad entusiasmarsi, domani mattina a causa della burocrazia ci perderemo in una miriade di problemi legati all’ordinario e ci dimenticheremo di mandare Alois in Cina.
Gianfranco Alois: quindi ti stai candidando ad attivare e mettere in piedi un’iniziativa di questo tipo?
Luigi Giamunto: Fino a quando ci sei tu c’è un dialogo, si può parlare. Io non credo nelle situazioni, io credo negli uomini e noi abbiamo dato prova, insieme, quando si parla di cose concrete, affrontando il problema, mettendolo sul tavolo, elaborandolo proposte, io noto che riusciamo a trovare il consenso di tutti. Poi quando si spostano i tavoli e si parla con linguaggi diversi non si va più da nessuna parte. Magari confrontandoci concretamente riusciamo a fare una cosa del genere, sembra una bomba, saremmo i primi in Italia.
Lino Grosso: quando il professore dice che con troppi distretti, forse rischiamo di disperdiamo in questa cosa, io dico di no, magari potessimo incentivare ancora altri distretti, che di fatto ci sono e purtroppo non riescono ad organizzarsi. Io penso che il problema non sia troppi distretti, assolutamente no, ma sia un altro: chi di noi in questo momento può decidere che se un distretto deve essere rilanciato o meno quando sappiamo che non esiste una politica di governo centrale che dia gli indirizzi. Gli imprenditori non hanno questi indirizzi, anzi auguriamoci che altri distretti vengano fuori per far emergere questi imprenditori e farli dialogare tra loro. Per quanto riguarda il rilancio dell’industria campana nel contesto europeo, non si tratta di rilanciare bensì di lanciare, perché non c’è mai stata una fase del genere. Quindi lanciare, ma come la lanciamo? le idee vci sono, non è che non ci sono. Voglio semplicemente soffermarmi su di un piccolo spunto, quello della ricerca. I cinesi non li potremo più fermare; è assurdo pensare che possiamo fare concorrenza ai cinesi; faccio un solo piccolo esempio: nello stesso giorno in cui Bossi parlava di imporre dazi doganali alle merci cinesi, questi hanno lanciato il primo loro uomo nello spazio e lo hanno fatto tornare indietro. Riflettete un attimo, l’Europa tutta insieme non ha ancora lanciato un uomo nello spazio; gli astronauti europei che vanno nello spazio vanno con il bus degli americani, non vanno con mezzi nostri; quindi stiamo parlando di un Paese che ha capito che si va avanti non solo con un certo tipo di mercato ma anche con la tecnologia e l’innovazione. Questo è il nostro terreno di confronto: la tecnologia, la ricerca, noi possiamo contrastare i cinesi solamente con la ricerca, con l’uso di materiali innovativi, con il design. Queste sono le uniche armi che abbiamo. Noi non potremo mai costruire i carrelli d’atterraggio ai prezzi dei cinesi, però possiamo trovare delle soluzioni alternative e tecnologicamente più avanzate.
Gianfranco Alois: noi abbiamo manodopera qualificata rispetto anche ad altre aree dell’Italia, centri di ricerca ed università; quindi dei punti di eccellenza importanti, abbiamo le aree disponibili rispetto ad altre regioni d’Italia e d’Europa che non ne hanno, abbiamo i distretti, non sono quattordici, sono sette e sono tutti distretti nati spontaneamente e, successivamente regolamentati. Io auspico che questo modello si consolidi e si ampli perché è il segno che c’è un’evoluzione di questo sistema distrettuale che io ritengo positivo. Tranquillizzo il professore, non ci sarà mai alcun distretto creato o imposto a tavolino perché gli errori del passato noi non li vogliamo più ripetere. Abbiamo già fatto, come Regione Campania, delle scelte sui settori strategici che sono i settori legati proprio alle caratteristiche di creatività e innovazione della Campania: l’aeronautico, la nautica da diporto, il tessile, il calzaturiero, le telecomunicazioni, l’industria dell’ambiente, che sta crescendo molto, ma è chiaro che in tutti questi settori noi puntiamo all’eccellenza e alla qualità di produzione, non ai settori in quanto tali perché altrimenti rischiamo di ripercorre strade sbagliate. Vorrei propore tre cose sulle quali concentrarsi in termini pratici. Abbiamo già fatto delle cose che stanno creando non solo investimenti, ma soprattutto animazione e dibattito, che alla fine è fiducia nelle scelte: il sistema distrettuale; il sistema fieristico, sul quale stiamo lavorando, ed è un pezzo fondamentale della vetrina dei nostri prodotti nel mondo; infine abbiamo un bacino fantastico che è il Mediterraneo, e in particolare la Banca Euro-mediterranea sulla quale abbiamo iniziato a lavorare e stiamo conseguendo buoni risultati, con significative dichiarazioni già espresse per la scelta di Napoli come sede. Un’altra cosa importante sono i confidi, l’elemento che consente alle piccole e medie imprese di continuare a crescere, la prima cosa da fare è la concentrazione dei cinquantadue confidi campani. Bisogna lavorare per la ristrutturazione del sistema locale di proposizione allo sviluppo, le agenzie di sviluppo locale devono essere sempre più il momento di sintesi tra tutti gli attori dello sviluppo locale. In questo quadro, il livello regionale deve diventare sempre più il momento di coordinamento legislativo, di proposizione e di coordinamento di tutta una serie di strumenti che nel tempo hanno creato confusione, i patti territoriali, i distretti industriali, i contratti d’area, le aree di crisi, i Prust, i Pic, e anche le Asi. ma deve lasciare al territorio la possibilità di crescere. Tutte le iniziative e gli strumenti di intervento vanno convogliati in un’unica struttura locale che veda, chiaramente, gli enti locali come un momento di aggregazione. Questi sono gli elementi sui quali io mi concentrerei maggiormente. In conclusione, abbiamo fatto questa panoramica su cosa è la regione, c’è un trend positivo, c’è, soprattutto, un target cui fare riferimento. Ci sono delle cose, c’è una visione chiara condivisa da tutti, però, non esiste la possibilità di uscire fuori, la competitività di un sistema regionale non è avulsa dal contesto, deve essere assolutamente integrata nel contesto nazionale, il contesto nazionale, in termini di competitività, nel contesto europeo e il contesto europeo inel contesto internazionale. Usciamo fuori da questo luogo comune “autarchico”, spesso presente spesso a livello locale, perché poi crea problemi il fatto che si pensi che attraverso la regione e con i metodi tradizionali è possibile fare il tutto: non è vero! Usciamo fuori da questo luogo comune: la regione è un pezzo importante in un meccanismo complessivo dal quale non siamo fuori e non vogliamo evidentemente essere fuori!
Vincenzo Esposito: grazie a tutti.