L’iniziativa di oggi, promossa dal Centro regionale per l’alternativa, rappresenta un tentativo di avvio in Campania di un articolato confronto tra tutte le espressioni della sinistra sociale e politica sui modi, i tempi, gli strumenti e le scelte politiche per il superamento del sistema di potere della Democrazia Cristiana nel Mezzogiorno e nel Paese. L’obiettivo che proponiamo ai compagni è quello di porre a confronto, senza pregiudiziali le diverse analisi e impostazioni che oggi sono patrimonio delle varie componenti della Sinistra e tentare una ridefinizione unitaria delle stesse alla luce dei processi politici, economici e sociali in atto nel Paese, per identificare scelte capaci di imporre la Sinistra come soggetto fondamentale del processo di cambiamento che è urgente avviare per superare i guasti e i danni provocati da decenni di occupazione dello Stato e del potere da parte della Democrazia Cristiana.
La situazione attuale
Affrontare questo compito in modo efficace richiede una puntualizzazione della lettura che fa la Sinistra dei grandi processi di modificazione messi in moto nel mondo occidentale dallo sviluppo tecnologico di questi ultimi anni.
Bisogna avere consapevolezza di essere solo agli inizi di questa fase che presumibilmente si svilupperà in maniera più virulenta nel corso degli anni Ottanta e che questo processo già oggi ha messo in discussione vecchi equilibri e assetti di potere costruiti in tutta una fase precedente.
L’attuale guerra monetaria e finanziaria è certamente un aspetto centrale della lotta in atto per definire una nuova divisione internazionale del lavoro, nuove alleanze, nuovi monopoli, in definitiva nuove ingiustizie e nuovi squilibri.
In questo quadro il ruolo che ha scelto di coprire il grande padronato italiano va nella direzione di rinnovare antiche subalternità politiche ed economiche, con l’obiettivo di imporre al Paese interessi di ristrette caste politiche e sociali, di perpetuare un sistema basato su squilibri permanenti, sul clientelismo e l’assistenzialismo.
Conseguenza immediata di una simile impostazione è la rinuncia a praticare iniziative finalizzate a collocare l’apparato industriale nazionale su livelli di concorrenza diretta con i paesi più avanzati tecnologicamente, ad utilizzare grandi risorse tecniche ed umane nei campi della scienza e della innovazione tecnologica, a sfruttare le grandi risorse legate allo sviluppo tecnologico per avviare a soluzione i grandi problemi strutturali del Paese e in primo luogo quelli del Mezzogiorno.
Queste scelte negative portano il grande padronato a tentare di risolvere i suoi problemi sul tradizionale terreno del controllo repressivo della forza lavoro, attuato attraverso l’utilizzo delle ristrutturazioni industriali finalizzate a sostituire capitale a forza lavoro e attraverso l’uso dello Stato inteso come oggetto mediante il quale è possibile smistare le risorse esistenti prevalentemente in direzione degli interessi immediati e di corto respiro. Questo progetto trova nei fatti concorde e schierata la Democrazia Cristiana e i suoi alleati.
La disdetta della scala mobile, la vicenda tragicomica imbastita intorno al disavanzo pubblico; il caso Calvi e i risvolti mafiosi; lo squallido spettacolo offerto dai vari ministri e dalle loro liti spesso folkloristiche; i tempi, i modi ed i contenuti della verifica tra i partiti della maggioranza sono i sintomi più appariscenti delle lotte su vari fronti avviate dalla Democrazia Cristiana per raggiungere il suo obiettivo centrale di realizzare nel Paese le condizioni più favorevoli allo sviluppo del progetto della Confindustria. Su questa strada la Democrazia Cristiana sta tentando, in maniera ormai scoperta, di coinvolgere il Partito Socialista Italiano in un’operazione che porta ad approfondire fortemente le divisioni nella sinistra e quindi a stabilizzare un quadro politico coerente con il progetto della Democrazia Cristiana.
Il terreno sul quale questo disegno ha trovato più marcata attuazione è quello della politica economica.
La marcata recessione nell’apparato industriale; la lotta all’inflazione condotta solo sul terreno della riduzione del reddito reale dei lavoratori dipendenti; la feroce stretta creditizia attuata in questi mesi; il mancato avvio di tutta una serie di provvedimenti legislativi in materia di politica previdenziale, fiscale e di investimenti produttivi; il mancato avvio dell’opera di ricostruzione delle zone terremotate; sono i fatti che caratterizzano l’operato del governo Spadolini. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: oltre due milioni di disoccupati, l’aumento vertiginoso della Cassa Integrazione Guadagni, la ripresa preoccupante dei gravissimi fenomeni della camorra, della mafia e della violenza politica, il profondo malessere in larghi strati sociali a cui sono connessi gravi fenomeni di disgregazione sociale e morale.
I problemi della sinistra
L’impegno di questo convegno deve essere quello di avviare un confronto tra le varie articolazioni della sinistra sullo schema di lettura dei fatti attuali, dei loro contenuti specifici, delle considerazioni da trarre, dalle risposte da costruire.
Il ragionamento fin qui svolto e le considerazioni che seguiranno, pur nella loro schematicità, vogliono essere un contributo, spesso problematico, in direzione del confronto unitario.
Il dibattito oggi presente tra le diverse articolazioni della sinistra evidenzia da un lato un appiattimento sui temi degli schieramenti parlamentare e dall’altro una ricerca di elementi di differenziazioni all’interno di analisi e proposte spesso più unitarie di quanto si voglia e si riesca a fare emergere.
Il Mezzogiorno
La scelta di discutere del Mezzogiorno non è casuale. In questa fase dello scontro sociale stiamo assistendo ad una rimozione della questione Mezzogiorno da parte delle forze di governo ma anche della sinistra che non cogliendo, il senso profondamente antimeridionale degli indirizzi di politica economica attuale avalla, nei fatti, queste scelte.
Se ci ostiniamo ad andare contro corrente è perché pensiamo che la rottura democratica del regime democristiano non può non partire dal “Mezzogiorno”, laboratorio politico del sistema di mediazione tra lo Stato e le masse della Democrazia Cristiana e luogo della sua crisi sociale.
È al Sud che debbono essere individuate le coordinate per realizzare una inversione di tendenza alla crisi di rappresentatività sociale che investe la sinistra, recuperare elementi di progettualità, dare uno sbocco unificante e progressista alla crisi che investe il blocco sociale aggregato attorno alla Democrazia Cristiana.
Non è nostra intenzione, in questa sede affrontare in maniera specifica e sistematica l’analisi complessiva della società meridionale oggi. Ci interessa, invece, enucleare, schematicamente, i mutamenti fondamentali verificatisi negli ultimi anni nella struttura sociale e economica del Mezzogiorno, soprattutto per capire le modificazioni intervenute nell’apparato di potere e nelle articolazioni della società.
La lettura della struttura meridionale è oggi più complessa e articolata che in passato: non siamo in presenza di una condizione uniforme di arretratezza e sottosviluppo; vi sono, invece, aree del Sud notevolmente trasformate e alcune ancora percorse da rapidi e tumultuosi cambiamenti che però determinano nuovi squilibri e sperequazioni.
Nuova ricchezza e antica povertà si intrecciano in processi sempre più contraddittori e paradossali.
Nell’insieme dei fenomeni di disarticolazione e ricomposizione che investono la realtà meridionale ci sembra che emergano tre questioni fondamentali: le aree interne; le aree metropolitane; l’apparato industriale.
Esemplificando si può affermare che attorno a queste questioni e al modo in cui si affronteranno ruota la possibilità di un riequilibrio territoriale, sociale ed economico del Sud.
Il terremoto ha evidenziato fenomeni di spopolamento, di miseria e di degrado delle aree interne. Ma, nella sua drammaticità, è stato la cartina di tornasole che ha rivelato nella sua limpidezza la rapina di risorse, uomini e ricchezze che i vari governi democristiani hanno perpetrato nel corso di decenni.
Il terremoto ha evidenziato e acutizzato tutti questi problemi.
Quando, e se, verrà attuato il piano di ricostruzione, se ad esso si accompagnerà un piano di industrializzazione e di sviluppo i notabili di ieri e di oggi si offriranno come inevitabili mediatori della operazione
Sostituirli con altre forze sociali non è cosa facile, è necessario inventarsi meccanismi di controllo dei flussi di spesa pubblica, incidere sui livelli attuali di organizzazione dell’imprenditorialità meridionale, eliminare la marginalizzazione dei paesi e realizzare quindi rapidi collegamenti tra la metropoli e le aree interne, realizzare occasioni concrete di industrializzazione.
La crisi sociale che investe le aree metropolitane del Mezzogiorno, in particolare l’area urbana di Napoli è il risultato della disgregazione prodotta dal regime democristiano.
La politica delle clientele ha generato una situazione di “sindacalismo diffuso”.
Napoli ormai è un insieme di corporazioni, piccoli gruppi, che si contrattano in modo isolato ognuno la propria quota di clientela, generando situazioni di turbolenze all’interno della “classe” e compatibili con l’attuale gestione del potere.
Il degrado del centro di Napoli, la invivibilità delle periferie, la delinquenza diffusa e capillare, la congestione dei trasporti sono questioni non più rinviabili, pena la marginalizzazione della sinistra nella realtà meridionale.
Il non-governo della città ha fatto esplodere una micro conflittualità diffusa che non riesce come in passato, a convogliarsi in un processo di trasformazione della società meridionale, anzi, diventa compatibile con la gestione democristiana del potere. In questo quadro il problema della disoccupazione cronica di fette consistenti di proletariato giovanile viene risolto facendo gestire alla Democrazia Cristiana poche migliaia di corsi professionali che sono in pratica assistenza camuffata e, in seguito, diritto clientelare al “posto”, scavalcando le già poco cristalline liste del collocamento. La risposta della sinistra vecchia e nuova si colloca un quadro di riferimento sostanzialmente immutato. Le liste, di lotta e i millecinquecento disoccupati iscritti al sindacato non sono forse ambedue una risposta parziale, inadeguata e riduttiva e in fondo corporativa alle esigenze delle migliaia e migliaia disoccupati napoletani che rimangono indifferenti rifluendo in soluzioni individuali, nel quadro delle compatibilità poste dal sistema costituito dall’intreccio tra clientele e gestione privata del potere.
Questi meccanismi perversi permeano ormai la società civile napoletana. Dalla domanda di case a quella dei servizi sociali, passando per tutte le esigenze di vivibilità, si è creato un meccanismo di corporativizzazione diffusa e capillare della organizzazione delle esigenze del proletariato urbano.
Assumere questa analisi come espressione del degrado morale delle classi e dei gruppi sociali napoletani sarebbe riduttivo.
La Sinistra non può leggere questi elementi di degrado in un’ottica moralistica. Si darebbero risposte fuorvianti, questo processo di disaggregazione/aggregazione è il risultato della mancanza di una risposta unitaria e credibile della sinistra ai bisogni delle masse popolari.
Le forze concretamente organizzate presenti nel meridione sono quelle del potere clientelare, che gestisce la spesa pubblica, controlla il mercato dei capitali e gran parte del mercato del lavoro attraverso una rete gerarchica costituita di sottilissime maglie, sostenuta dagli accordi nazionali di governo. Questa struttura di potere ha raggiunto un grado di capillarità tale da controllare ormai l’intera società meridionale. D’altra parte l’unica organizzazione dei lavoratori è quella presente nella grande industria, ma si tratta, purtroppo, di isole quantitativamente limitate e accerchiate dalla radicale ristrutturazione produttiva in atto. Al di fuori della grande industria l’organizzazione sindacale e le forme associative tra lavoratori sono in pratica inesistenti.
Agli inizi degli anni Settanta c’è stato un significativo sviluppo del Mezzogiorno con positive conseguenze sociali sulla realtà meridionale, che si è riflessa, ad esempio, nella grande avanzata della sinistra. All’interno di questa espansione c’è stato una crescita significativa della presenza delle grandi aziende a Partecipazione Statale.
La velocità di crescita industriale nel Mezzogiorno, per la prima volta dall’unità d’Italia ha avuto indici maggiori di quelli registrati nello stesso periodo al Nord.
La crisi economica che ha investito contemporaneamente i grandi settori industriali e le grandi aziende ha arrestato questa crescita dell’apparato industriale. Nonostante ciò l’occupazione industriale al Sud, fino al 1980, tiene ed in alcuni casi addirittura cresce per l’affermarsi, in alcune aree meridionali, del modello adriatico.
Nella seconda fase della crisi economica italiana il trend di sviluppo subisce un rallentamento notevole, scompaiono gli effetti, sull’economia meridionale, del boom economico del biennio 78-79.
La politica economica nazionale cambia disegno: diventa recessione programmata e preordinata dagli organi di governo dell’economia. Il modello che si impone, in Italia, seppur con marginali differenziazioni, è il reganismo: si sceglie di bloccare l’espansione industriale costringendo la grande industria, laddove questo fenomeno non è spontaneo, a realizzare radicali ristrutturazioni.
Agli inizi degli anni Ottanta in Italia ci sono contemporaneamente quattrocentomila lavoratori esuberanti, consistenti aumenti del volume dei profitti, significativi incrementi della produzione industriale.
Questa fase di ristrutturazione si differenzia dalla precedente (76-80) che si realizzava, invece, in un quadro di riferimento tendenzialmente di tipo espansivo. Il processo più lungo di ristrutturazione è quello che ha interessato l’industria chimica, localizzata in massima parte nelle aree meridionali. Salta definitivamente qualsiasi relazione tra incrementi occupazionali e volumi di investimenti. La rivoluzione tecnologica in atto impone, anzi, massicci investimenti finalizzati alla restrizione della base occupazionale.
Il notevole flusso di risorse economiche verso le aziende meridionali, da occasione di sviluppo, si trasforma in finanziamento pubblico all’espulsione di quote consistenti di forza lavoro dall’apparato produttivo.
Questo processo di stagnazione influenza anche il secondo mercato del lavoro che accusa i colpi della recessione sommandone gli effetti e riflettendosi, quindi, negativamente su tutta l’economia meridionale e in particolare sulla quantità e la qualità dell’occupazione industriale.
I vecchi problemi, derivanti dallo sviluppo distorto si accumulano con quelli nuovi indotti dagli effetti della stagflazione, riportando il meridione in un contesto di degrado.
Riproporre la specificità dei problemi del Mezzogiorno senza porsi l’obiettivo immediato di cambiare il segno della politica economica del governo significa ridursi ad un ruolo subalterno. Alle soluzioni da attuare si sostituirebbe, inevitabilmente, l’ennesimo inventario, senza nessuna soluzione, dei problemi del Sud. Premessa per ogni ipotesi di lavoro credibile, è rompere la polarizzazione del dibattito nazionale attorno al nodo del superamento del disavanzo pubblico la cui soluzione, prospettata dal governo, comporterebbe semplicemente un ulteriore contenimento della spesa, accoppiata all’ennesima stangata fiscale che nel complesso porterebbe l’economia italiana in una fase di stagnazione ancora più accentuata.
Il rilancio di una politica di sviluppo è la condizione prima per realizzare di emancipazione per le aree meridionali.
La sinistra
La sinistra meridionale è investita da una grave crisi di rappresentatività sociale, che blocca la possibilità di costruire soluzioni progressive alla disgregazione del blocco sociale democristiano mortificando, quindi, le potenzialità di emancipazione insite nel fenomeno.
La sinistra storica è, ormai, sempre più schiacciata sul mantenimento della governabilità, riducendo, spesso, il suo ruolo a semplice amplificatore delle amministrazioni locali, perdendo, in questo modo, collegamenti con strati sempre più consistenti delle popolazioni meridionali.
Il fenomeno pericoloso che si sta avviando al Sud è la rottura di relazioni tra la sinistra e le masse meridionali.
Il dato che emerge dai trascorsi risultati elettorali della circoscrizione comunale napoletana, San Carlo Arena-Stella, test estremamente significativo per numero di elettori interessati e loro composizione, è il disinteresse del “popolo” napoletano verso il segno della gestione della cosa pubblica. L’enorme numero di non votanti, il calo di missini e sinistra, che, in passato, hanno rappresentato le spinte di protesta sanciscono questa indifferenza. Si assiste ad un pericoloso ritorno al fatalismo “defilippiano” che pure le lotte degli ultimi anni a Napoli, avevano contribuito a combattere. Questa tendenza è evidenziata in modo ancora più accentuato dall’andamento del voto della area del cratere. Qui c’è stata una inversione di segno, determinata non già dalla tensione al cambiamento, bensì dalla sfiducia totale in un uso innovativo della politica. La politica, ormai, viene ridotta a semplice amministrazione del potere senza nessuna possibilità della sua messa in discussione. Infatti laddove governava la sinistra ha vinto la Democrazia Cristiana e viceversa.
La nuova sinistra meridionale, cresciuta e sviluppatasi con il movimento studentesco, le lotte del colera, le battaglie della classe operaia napoletana, non riesce ad emanciparsi da schemi interpretativi della realtà ormai statici. Rischiando di chiudersi in una logica di difese parziali e settoriali. Un patrimonio significativo di cultura, ricerca, presenza e mobilitazione e battaglie spesso rilevanti per la realtà meridionale tende a diventare ormai patrimonio residuale del vecchio ciclo politico.
All’elaborazione il più delle volte pregevole, sulle trasformazioni sociali non si accompagna, purtroppo iniziative conseguenti. C’è una propensione, pericolosa, a candidarsi, a volte, rappresentante di ceti sociali resi marginali dalle innovazioni e trasformazioni in atto.
Il sindacato meridionale, d’altro canto, è troppo appiattito sulle istituzioni, subalterno ai partiti, ristretto nella sua base sociale, agli occupati, è troppo precario nella sua unità, condizionato nella sua autonomia, limitato nella sua capacità propositiva per essere in grado, oggi, di svolgere un ruolo di soggetto politico autonomo inserito in un progetto di trasformazione e di rinascita economica, sociale e culturale del Mezzogiorno. L’alternativa non può essere ridotta a questione formale o a logiche di schieramento, ma deve essere prima di tutto tensione di trasformazione di noi stessi e della realtà.
È essenziale, nel Mezzogiorno, realizzare un livello di lenità del sociale che, riuscendo a dare voce ed espressione ai bisogni della gente, ne organizzi la forza per obiettivi di trasformazione e di più elevati ed articolati livelli di vita e partecipazione democratica.
Il sindacato deve essere uno di questi strumenti fondamentali di unificazione e di unità: deve essere capace di organizzare, insieme con gli occupati, i “soggetti difficili” della realtà meridionale, i cafoni delle zone interne, i giovani delle aree urbane, gli intellettuali-massa, figure sociali decisive nel panorama meridionale, il proletariato marginale napoletano. Questo significa mettere in campo una forza, un blocco sociale che, per la radicalità dei bi sogni che esprime, non può che rompere con le anguste compatibilità delle politiche economiche dei governi nazionali, non può che essere fortemente dirompente, essere contro il sistema di potere meridionale.
Bisogna costruire, quindi, un sindacato sociale, di massa, conflittuale, soggetto politico autonomo con un proprio progetto.
Un sindacato sociale di massa, nel senso che punto di riferimento del sindacato meridionale non può essere solo la fabbrica, che rimane un elemento centrale, ma inscindibilmente e necessariamente fabbrica e territorio, classe operaia e nuovi soggetti sociali.
Questo per le caratteristiche storiche della società meridionale e per i cambiamenti in essa indotta simultaneamente dalla ristrutturazione capitalistica e dall’articolato intervento dello Stato: cambiamenti che hanno spostato la contraddizione fondamentale tra lavoro e capitale dal luogo della grande fabbrica in quello più vasto e sommerso della società e che pongono, quindi, il problema della ricomposizione e della unificazione dei soggetti sociali antagonisti come unità tra fabbrica e territorio. Unità nella quale il ruolo della classe operaia centrale resta fondamentale e indispensabile anche se la centralità operaia acquista dimensione e significato diversi rispetto al passato: è una centralità non data e garantita, è una centralità che è necessario costruire all’interno della dialettica e dello scontro sociale in atto, in cui la classe operaia centrale modifica sì gli altri soggetti, ma ne è da essi modificata nella sua cultura e nei suoi comportamenti.
Costruendo, in modo diffuso, questo radicamento sociale, il sindacato meridionale può porsi realmente come soggetto politico autonomo, là dove l’autonomia è data dal suo essere profondamente radicato nel sociale e dall’aderire alla materialità dei bisogni di classe, e la politicità non è un dato esogeno, espressione di linee politiche di partiti o addirittura prolungamento del quadro politico, ma elemento endogeno, espressione dell’acquisita, capacità di liberare i bisogni delle masse dai limiti dell’immediatismo e di ricomporli all’interno di un processo politico di trasformazione.
Alcune ipotesi di lavoro
Un ruolo importante, nel contesto di uno sviluppo equilibrato del meridione, può essere svolto dalle Partecipazioni Statali che devono essere un valido strumento per incidere positivamente nelle trasformazioni in atto nelle industrie, strumento finalizzato ad uno sviluppo estensivo e di qualità che emancipi l’apparato industriale meridionale. L’imprenditorialità pubblica deve realizzare un intervento atto a rilanciare e consolidare la sua presenza nei settori oggi in difficoltà, senza ripercorrere la strada dei vari carrozzoni di salvataggio.
Lo Stato deve svolgere un suo ruolo autonomo di sostegno alla domanda e sviluppo dell’offerta, attraverso una corretta politica di commesse, intervenendo simultaneamente sui due fattori, sviluppando una politica, di’ presenza significativa, in settori di sviluppo (Telecomunicazioni, Informatica, sistemi di trasporti) determinanti per il destino industriale dell’Italia.
Attraverso lo spostamento al Sud di quote di commesse qualificate, va sviluppata una politica di sostegno che tendi alla espansione di piccole imprese locali sindacalizzate, per realizzare nell’area meridionale il completamento di alcuni cicli produttivi, in parte preesistenti nella nostra economia.
Le forze lavorative del Sud debbono trovare la via di un’organizzazione autonoma che rompa i vincoli che attualmente le attanaglia, debbono sorgere, e quindi bisogna incentivarle, associazioni di lavoratori artigiani, imprese cooperative nell’industria e nell’agricoltura, consorzi di piccole imprese, si deve evitare che gli sviluppi produttivi, là dove esistono, si trasformino in allargamento dell’area del lavoro nero e in una nuova base di sviluppo dei profitti per le aziende del Nord.
L’emancipazione delle masse meridionali passa per la rottura del meccanismo che fa sì che le forze lavoratrici siano costrette a vendere il loro lavoro su base individuale e dispersa.
Forme associative di lavoratori, artigiani ed imprenditori potrebbero, come afferma Graziani, realizzare quel salto tecnologico necessario a conseguire sul piano organizzativo e commerciale l’efficienza necessaria per fare quello che ciascuno isolato non può e, cioè, uscire dal sommerso e affrontare il mercato aperto.
Il Mezzogiorno è interessato da uno spostamento notevole di risorse dal centro, che realizzano quell’intreccio particolare di assistenza e clientelismo che potremmo definire welfare-state democristiano.
Il sistema di trasferimento del reddito attraverso pensioni, corsi professionali retribuiti e sussidi vari raggiunge cifre considerevoli e realizza, attraverso meccanismi occulti, la legittimità e la continuità del sistema di potere democristiano.
In questo contesto, è necessario, bloccare questo flusso di danaro pubblico dallo Stato verso il Mezzogiorno, nelle forme distorte in cui si realizza, per creare un meccanismo cristallino e generalizzato di sussidio a tutti i disoccupati, rompendo la gestione del consenso realizzata dalla Democrazia Cristiana, attraverso il controllo e la gestione di questo flusso. Come afferma, Manlio Rossi Doria, è sorta a Sud una nuova borghesia di funzionari che, in una società dominata da flussi di spesa pubblica, occupando posizioni chiave nella pubblica amministrazione, è finita per raccogliere nelle sue mani il potere nella misura più ampia. Essi riescono ad esercitare la loro autorità nella misura in cui l’economia del Mezzogiorno conserva la struttura di economia sussidiaria, legata non già al mercato bensì al sostegno pubblico.
La lotta per il lavoro può essere, in questo contesto, l’obiettivo unificante del fronte di lotta che nei prossimi mesi bisogna realizzare per costruire l’inversione di tendenza.
L’intreccio tra sviluppo dell’apparato produttivo e la riorganizzazione delle aree metropolitane, indispensabile per evitare gli squilibri territoriali del passato, può avere il suo momento propulsivo proprio per la lotta per il lavoro. E’ possibile, a patire dalla difesa e dal sostegno al reddito e alle condizioni di vita delle masse popolari creare le condizioni per il rilancio di un nostro progetto di sviluppo.
Il controllo delle tecnologie insieme alla battaglia per la riduzione certa e generalizzata dell’orario di lavoro è la premessa fondamentale per una ripresa della iniziativa operaia.
Il suo intreccio alla lotta per il sussidio generalizzato ai disoccupati deve rilanciare il movimento di classe sulla scena politica.
In questo contesto è necessario e non più rinviabile riaprire la discussione, nella sinistra, sul futuro e la riqualificazione del centro antico e urbano di Napoli. Non è possibile far passare sotto silenzio operazioni elitarie ed inutili per le esigenze dei napoletani quali quella della ricostruzione del v vecchio policlinico. In quell’area va realizzata una struttura di servizi sociali, verde attrezzato, parchi-giochi per bambini per creare condizioni di vivibilità umane, non già mega-strutture ospedaliere che servirebbero semplicemente a rilanciare baronie e ad imporre una visione distorta e fuorviante del diritto alla salute.
Il risanamento dell’area urbana di Napoli finalizzato alla realizzazione di condizioni civili di vivibilità delle popolazioni, deve diventare l’occasione per impiegare migliaia di giovani in un’opera di riqualificazione, rilancio e sviluppo di questa metropoli.
Un ruolo importante possono, e devono avere, le aziende pubbliche, in particolare l’Italstat, che per le sue capacità progettuali, in collegamento con l’imprenditoria locale può realizzare una operazione che dia finalmente risposta alla domanda sociale di vivibilità, che seppur in modo parziale e confuso, viene espressa in modo sempre più preciso dal proletariato urbano.
La Sinistra meridionale è chiamata a una grande responsabilità: rilanciare una grane stagione di lotta per la rinascita della sinistra stessa e del Mezzogiorno.