La crisi che stiamo attraversando richiede in tutti noi un momento di approfondimento e qualche riflessione più puntuale.
La crisi che investe l’Europa tutta nel suo insieme ha origini e radici esogene che hanno un nome e un cognome, la crisi dei subprime negli Stati Uniti d’America e la sua espansione ha invece ragioni endogene proprie del sistema monetario europeo per come si è andato strutturando.
Quando gli Stati Uniti sono entrati in difficoltà per lo scoppio della bolla immobiliare sono scoppiate le contraddizioni, si è aperto un conflitto tra il capitale finanziario e il capitale produttivo. Quando lo tsunami arriva in Europa travolge l’Unione Europea e l’Unione monetaria.
L’Italia ha un debito pubblico di circa 1.900 miliardi di euro e un pil di circa 1.600 miliardi di euro. Il rapporto debito/pil si attesta quindi al 119% circa con un rapporto deficit/pil al -4.60%.
Il debito pubblico Usa ammonta a circa 14.200 miliardi di dollari con un rapporto deficit/pil al -9.40%.
Il governo federale degli Stati Uniti d’America sostiene che il loro rapporto debito/pil è pari al 100%. Ma non è effettivamente così. Il debito così composto si riferisce al solo debito federale, con l’esclusione dell’ingente debito locale (municipale, contee e singoli stati) pari a circa 2.500 miliardi di dollari (enti locali) e circa 5.000 miliardi di dollari (agenzie che finanziano l’edilizia).
Quindi per l’insieme della struttura federale il rapporto reale tra debito/pil supera il 140%!
In pratica gli Stati Uniti d’America hanno un rapporto debito/pil e indicatori economici peggiori dell’Italia, perché, ogni cittadino nord-americano ha un debito pari a circa 70.000 $ (debito pubblico diviso per abitanti), circa il doppio di quanto ha un italiano.
Questo dato non deve essere trascurato, anche in virtù del fatto che il Signor Rossi ha poi però qualcosina da parte, mentre invece Mr. Smith ha ancora tutti i suoi debiti privati.
La crisi diventa più acuta quando il capitalismo finanziario confligge con il capitalismo produttivo e la logica di “pochi utili, sporchi, cattivi e subito” porta alla perdita in borsa di aziende produttivamente floride solo perché distribuiscono utili inferiori alle aspettative degli speculatori.
Quando la crisi si riverbera in Grecia l’Unione Europea non è attrezzata perché la politica monetaria della BCE combatte la crisi con la depressione invece che con la crescita operando su tassi di interesse rigidi e legati al tasso medio dell’inflazione: se l’inflazione è superiore al 2% i tassi si abbassano determinando politiche deflattive.
Questa linea porta la Grecia ad un passo dal default con effetti che si riverberano alla Spagna, all’Italia e alla Francia. L’attacco ai crediti sovrani si allarga anche a paesi come l’Austria che sono considerati affidabili e anche l’asta di Bund decennali del 23 novembre è stata coperta da un irrituale intervento della Bundesbank che è intervenuta all’asta per acquisti pari a 2,5 miliardi.
La BCE è intervenuta sui conti dell’Italia non solo definendo l’entità della manovra correttiva da effettuare sui conti pubblici ma anche sul come e dove intervenire.
Questa iniziativa apre un conflitto inedito tra una tecnostruttura non legittimata democraticamente – la Bce – e governi democraticamente eletti.
La Spagna e la Grecia sono state costrette a indire le elezioni e l’Italia si da un governo tecnico per affrontare l’assalto speculativo ai danni del debito sovrano.
Nei fatti si sancisce che in Europa tutti i cittadini sono uguali ma quelli francesi e tedeschi lo sono di più.
L’Europa inizia finalmente a porsi il problema che l’attacco speculativo, portato avanti a macchia di leopardo, punta a scardinare la moneta unica ma nonostante ciò non riesce a trovare una via di uscita praticabile ingessata nei suoi formalismi e schiacciata dalla linea monetarista della Merkel.
L’unica via praticabile, a mio avviso, per uscire da questo avvitamento delle singole economie nazionali, è trasformare la Bce in banca erogatrice di ultima istanza sul modello della Fed.
Trasformare la Bce in banca federale europea pone la questione di definire un governo europeo dell’economia.
L’unica strada per superare il conflitto apertosi in Europa tra tecnocrazia e democrazia, è quella di cedere sovranità nazionale in cambio di un rafforzamento del ruolo di guida politica dell’Unione, attraverso la definizione di organi di governo democraticamente eletti.
In Italia al conflitto tra tecnostruttura e democrazia si aggiunge quello che si è aperto tra mercato e democrazia, conflitto a cui si tenta di rispondere con il governo Monti.
In Italia, il conflitto tra mercato e democrazia si era aperto all’indomani di tangentopoli e, sbagliando, si è tentato di risolverlo pensando che il Sistema Paese era fragile “perché la politica” era la palla al piede di un sistema economico altrimenti dinamico.
Si è così introdotto un bipolarismo coatto che ha sradicato il diritto di rappresentanza, cancellando il concetto costituzionale di mandato parlamentare individuale, eliminando, per legge, la possibilità dei cittadini di scegliersi la propria rappresentanza, rappresentanza che veniva demandata in modo esclusivo a partiti post-democratici che provvedevano, in surroga al dettato costituzionale, a nominare la rappresentanza parlamentare, prima attraverso il mattarellum e, successivamente, con il porcellum.
Invece, il problema da porre all’ordine del giorno era la natura del capitalismo nazionale.
Il capitalismo italiano è sempre stato un capitalismo parassitario e assistito, incapace di aggredire i mercati, reggere la competizione ed assumersi un rischio alto.
Inoltre, il capitalismo nostrano, dal secondo dopoguerra era un capitalismo assistito che ha vissuto usufruendo del sostegno della concertazione, della contribuzione pubblica e delle politiche di svalutazione che la lira consentiva.
La concertazione ha garantito la pace sociale ma il suo uso maldestro è alla base della nascita del debito pubblico perché il saldo della concertazione tra sindacati dei lavoratori, padroni e governo era tutto a carico dello Stato.
Un altro elemento che ha reso più ardua la modernizzazione del capitalismo in Italia è stata l’affermazione di una globalizzazione senza regole politiche.
I paesi del Sud che avevano forme di governo accentrate si sono immessi sul mercato con una forza maggiore che non era il differenziale del costo del lavoro, bensì la loro capacità di aggredire e fuggire dai mercati con decisioni rapide e autoritarie.
Si è aperto un conflitto non risolto tra mercato globale e democrazia.
L’Italia aveva un sistema costituzionale di democrazia lenta finalizzata ad allargare l’area di partecipazione dei cittadini per neutralizzare le spinte autoritarie e l’esperienza fascista.
L’accentramento delle decisioni richiede una diminuzione della partecipazione politica ma il paradosso è che quando la società civile diventa partecipativa legge la lentezza delle decisioni come un conflitto tra la democrazia e il mercato.
Il sistema costituzionale decisionale rallentato era un antidoto al fascismo ma la burocrazia lenta e il movimento rallentatore, in una democrazia oramai matura, erano un elemento da superare definendo un nuovo ordinamento che definisse controlli e rapidità delle decisioni.
L’introduzione dell’euro ha aggravato la situazione togliendo ai governi l’arma della svalutazione a sostegno delle importazioni.
Quando abbiamo aderito al Trattato sull’Unione Europea e abbiamo adottato l’euro il Paese cedeva sovranità su cambio, politica economica e bilancio.
La gestione del debito pubblico è diventata europea all’interno di un sistema monetario che si basa su un equilibrio, gestito dalla Bce, tra il tasso di interesse e il tasso medio di inflazione: se l’inflazione è superiore al 2% i tassi si abbassano determinando politiche deflattive. Si combatte la crisi con la depressione invece che con la crescita.
La crisi nazionale ha messo a nudo una verità: la sfida posta dalla globalizzazione e la crisi finanziaria degli stati nazionali hanno ha reso obsoleti gli strumenti e le strategie socialdemocratiche classiche, hanno svuotato il compromesso socialdemocratico e messo in crisi il welfare state minando alla radice le basi dell’Europa solidale, la struttura delle singole società europee, il rapporto tra stato e mercato e il ruolo stesso degli stati nazionali.
L’impianto fondamentale della politica europea per fronteggiare la crisi non si discosterà da quello indicato dalla Bce per l’Italia. Sull’altra sponda, quella dei movimenti laburisti, e dei sindacati nazionali, stenta ad affermarsi sul piano europeo una linea politica comune: né alternativa a quella dei conservatori, né di sostanziale correzione su questioni centrali come la riforma del welfare e il ruolo dell’intervento pubblico.
L’iniziativa politica, tranne lodevoli eccezioni, si svolge solo sul piano nazionale, mentre la politica dei conservatori ha il crisma dell’Unione Europea e dell’europeismo.
La sfida che hanno di fronte il movimento dei lavoratori e la sinistra riformista è rilanciare il proprio profilo europeista e battersi per l’integrazione politica, chiamando i lavoratori e i popoli a partecipare al rilancio e la democratizzare dell’Unione Europea.
La crisi ha reso impraticabili le politiche sociali classiche e i welfare nazionali.
Oggi va posto all’ordine del giorno del movimento dei lavoratori la necessità di andare oltre il Novecento, elaborare nuovi paradigmi e nuove visioni della società, per rilanciare l’utopia federalista europea come risposta alla crisi degli stati nazionali per governare la modernità, globalizzare i diritti e le libertà, governare i processi di innovazione a partire dalla definizione di un moderno movimento sindacale unitario ed europeo che lanci un nuovo, grande progetto di Europa sociale e solidale per garantire un futuro equo alle giovani generazioni.