La recensione di Giuseppe Zollo su il Napolista del libro di Vincenzo Esposito che analizza e racconta la storia del nostro territorio in relazione a uno dei suoi simboli culinari.
Privo di ricette
Taganrog, Wilhelmina Tarwe, Akakomugi, Squarehead non sono eroi di Salgari, compagni o avversari di Sandokan. Sono varietà di grano duro. Nei nomi esotici risuona l’eco della loro lontana origine. È la prima scoperta che si fa sfogliando il libro “La civiltà della pasta” di Vincenzo Esposito, pubblicato dalla napoletana Libreria Dante & Descartes qualche mese fa.
Avvertenza: il libro di Esposito è rigorosamente privo di ricette. L’ambizione del libro è un’altra ed è dichiarata nel titolo. Dove il termine aulico di Civiltà viene associato con quello umile di Pasta. I due termini stridono. È come un barbone invitato a presentare i propri abiti in una sfilata di moda. Eppure è un accostamento importante. Se vogliamo comprendere l’identità di un territorio, la sua civiltà, non possiamo fermarci a considerare solo le sue espressioni artistiche, la sua letteratura, la storia politica e militare. Dobbiamo scendere nella quotidianità. Dobbiamo capire cosa fanno le persone, come occupano il tempo, di cosa discutono.
Senza calcio, senza pasta
Fate un esperimento mentale. Immaginate una Napoli, dove improvvisamente, per un sortilegio, nessuno è più in grado di formulare una sola frase sulla squadra di calcio. Una specie di afasia collettiva. Ebbene, il mio quartiere, Moltecalvario, diventerebbe muto. Le strade, i bar, gli uffici, i bus immersi in un cupo silenzio.
Fate lo stesso esperimento mentale con la pasta. Immaginate che i napoletani non possono mangiare pasta a causa di una malefica mutazione genetica. Nel giro di un paio di generazioni avrete napoletani del tutto diversi da quelli attuali. Chissà, forse più simili a un tedesco o a un cinese. Per la semplice ragione che sarà scomparsa un rito fondamentale della quotidianità. Rito descritto da Erri De Luca in un testo riportato nel libro: “…spegne il fuoco, solleva la pentola, scola, mischia gli spaghetti nella scodella con il condimento. E siede e gira il primo colpo di forchetta e mastica il boccone. È un po’ forte, al dente, ma è la cosa migliore del suo giorno, l’ora di remissione dei debiti al suo corpo. Mastica piano, inghiotte, …”. Gesti semplici, ripetuti ogni giorno da decine di migliaia di persone. La trama segreta delle civiltà.
Il cibo dice chi siamo
È sui gesti semplici della quotidianità che si costruisce la storia di lunga durata di un popolo. Una storia che scavalca le guerre, le dominazioni, le effimere stagioni della politica, dei re, dei governanti. Ed è questo quid duraturo, profondo, diverso che viaggiatori di ogni epoca vengono a cercare nel golfo. Esposito ne riporta una vasta antologia di scritti. Giornalisti, scrittori, memorialisti si sforzano di comprendere come l’atto di produrre e mangiare maccheroni a Napoli abbia contribuito a forgiare i comportamenti e le relazioni sociali dei napoletani. Ma la storia dei maccheroni non è solo produzione di gesti quotidiani e di universi simbolici. È anche storia industriale e sociale. È lavoro, tecnologia e impresa che per cinque secoli organizza la vita sociale e industriale di Gragnano e Torre Annunziata. Vincenzo Esposito non dimentica la propria origine di operaio e sindacalista. Nel saggio introduttivo esamina le vicissitudini di una cultura industriale sempre in cerca di un punto di equilibrio tra tradizione e innovazione. È una storia non sempre vincente. Perché il punto di equilibrio non è stabile. Va continuamente riprogettato. E quindi esige una mobilitazione continua delle intelligenze singole e collette. Il distretto dei pastai di Gragnano e Torre Annunziata va in crisi durante il ventennio fascista quando, impaurito dalle trasformazioni delle tecnologie e dei mercati, arretra progressivamente, perdendo imprese, occupati, competitività. Langue per alcuni decenni fino agli anni recenti, quando finalmente ritrova la capacità di imporre ai nuovi mercati i valori della propria storia secolare. È una storia esemplare, che ci fornisce un insegnamento prezioso. Nel mondo omologato della globalizzazione, dove un hamburger a Singapore non è diverso da quello di Ostenda o di Nashville, chi possiede una storia lunga e densa gode di un vantaggio inespugnabile. E ha il futuro nelle proprie mani. Insomma è un libro che va letto per sapere chi siamo e chi possiamo essere.
Giuseppe Zollo, 30 marzo 2017
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