dedalus pDal Cendes al Centro Raniero Panzieri

Quando nel 1976 decidemmo di dare vita a un centro di iniziativa politico-culturale, non avevamo ancora maturato l’idea di costituire una cooperativa.
Venivamo, ciascuno con la sua propria storia personale e spesso con una lunga frequentazione, dalle diverse esperienze fatte dal di dentro del ‘68 nei movimenti cattolici, studenteschi, sindacali; ci eravamo confrontati con i temi della contestazione globale, del terzomondismo, del Concilio e eravamo qualche caso passati per le esperienze delle lotte di quartiere e di politicizzazione nelle nuove giovani formazioni politiche. Ma alla fine avvertivamo forte esigenza di lavorare a un nuovo progetto che ci liberasse dalla trappola dell’ideologismo e dalla tentazione di tirare semplicemente i remi in barca. Si parlava allora di molte alternative possibili.

Gli anni di piombo e della cosiddetta strategia della tensione mettevano una pesante cappa di grigiore sull’impegno culturale e politico che non volevamo subire. Si parlava, in quegli anni, di lunga marcia attraverso le istituzioni e di altre possibili sbocchi politici. Avevamo già metabolizzato la fine delle ideologie e cercavamo una strada diversa.
Ritenevamo ancora valida l’idea di trasformazione e cercavamo nuovi contesti nuove forme di intervento. Non volevamo rinunciare alle conquiste di nuova coscienza e di nuova cultura degli anni in cui avevamo imparato a esercitare il diritto di critica e di utopia. Ancora ideologia? Volevamo discutere, capire crescere. Come amava ripetere già allora Giuseppe Zollo, il problema, prima ancora di discutere di soluzioni, era principalmente quello di porre le domande giuste o, più precisamente, concepire domande nuove. La “Bozza di documento istitutivo del Cendes di Napoli” dell’agosto ‘76, era stata scritta da Michele Biondo dopo una serie di incontri con Mario Raffa. Lo facemmo circolare nelle nostre aree di riferimento, trovando una risposta positiva. 
Si organizzarono incontri, riunioni fino a concordare, al di là del documento, sull’idea di creare un centro che fosse luogo di riflessione, analisi e intervento collocato in una struttura di respiro nazionale, scegliendo di legarci al Cendes (Centro di documentazione economica e sociale), che in quella fase aveva promosso un’ampia riflessione sui nuovi scenari indotti dal ruolo nuovo del sapere e delle tecnologie nelle fabbriche e nella società. Il 6 febbraio 1977, dopo una serie di intese con il gruppo romano, alcuni di noi formalizzarono la richiesta di adesione: Pina Belloni, Michele Biondo, Pasquale De Luca, Vincenzo Esposito, Franca Lanni, Antonio Memoli, Rita Monfregola, Renata Petti, Mario Raffa e Sergio Sorrentino.
Tra le prime attività del collettivo napoletano del Cendes, il 1° giugno 1977, in collaborazione con la Libreria Pironti di Tullio Pironti, nella sala delle Lauree del Politecnico di Napoli, presentammo il libro “Tecnologia e decentramento produttivo - L’esperienza italiana dal dopoguerra a oggi” curato da Mario Raffa e Alfredo Del Monte, pubblicato nella Collana Cendes-Fabbrica e Stato delle Edizioni Rosenberg & Sellier di Torino. Furono invitati come relatori Francesco Ciafaloni, Pino Ferraris, Augusto Graziani e Salvatore Vinci. Fu anche l’occasione per presentare il nostro programma. Di quella fase è rimasta traccia in un’intervista fatta da Francesco Ruotolo e pubblicata dal “Quotidiano dei lavoratori” del 7 aprile 1977 (Il Cendes a Napoli: una iniziativa per approfondire l’analisi del Sud).
Meno di un anno dopo, quando il Cendes assunse a livello nazionale una connotazione troppo legata alle dinamiche e ai conflitti interni alla nuova sinistra e ai rapporti tra la componente sindacale e quella movimentista decidemmo che per mantenere la nostra autonomia dal dibattito strettamente politico fosse sufficiente semplicemente cambiare nome. Quindi senza soluzione di continuità, il Cendes Napoli si trasformò in Centro Raniero Panzieri, ispirandoci al Panzieri dei “Quaderni Rossi” e dell’inchiesta operaia, uno dei maggiori esponenti di una linea di pensiero critico all’interno della sinistra negli anni Cinquanta/Sessanta. Si costituirono due gruppi di lavoro, uno di ricerca sulla nuova organizzazione del lavoro nella fabbrica e nei servizi, e uno per la realizzazione di un seminario di riflessione e analisi sul metodo e sui contenuti del lavoro intellettuale. Con questa nuova sigla, tra una riunione e l’altra, furono organizzati due eventi: un’assemblea operaia, che si tenne il 10 maggio del 1978 al Centro Elisse di via Carducci, che Salvatore Pica, un imprenditore sensibile a quanto d’innovativo accadesse nel mondo della cultura e della comunicazione, ci mise a disposizione. In questa occasione cercammo di mettere insieme, per una riflessione collettiva sul rapporto tra ristrutturazione produttiva e movimento, delegati sindacali, prevalentemente metalmeccanici, provenienti da tutta la regione. La seconda iniziativa fu l’elaborazione di un documento sulle trasformazioni del ciclo produttivo e il controllo operaio elaborato da Rosalba Aponte, Vincenzo Esposito, Alfonso Marino e Giuseppe Zollo e un convegno sul tema che si tenne alla Remington Rand nell’area poi dismessa di viale Maddalena, e vide la presenza, tra gli altri, di Pino Ferraris, prestigioso militante e studioso del movimento operaio.
Fu in questa occasione che Ferraris ci definì “un gruppo di pazzi che abita a Napoli pensando di stare a Torino”. Volemmo prenderla come un complimento.
Ma della soluzione organizzativa non eravamo ancora soddisfatti. Diventava sempre più prepotente l’esigenza di darci una strategia organizzativa in grado di consolidare il lavoro del nucleo promotore, ampliare la partecipazione e, soprattutto, capace di creare un luogo di accumulazione intellettuale, che in qualche modo vivesse di una vita propria, anche a prescindere dai promotori.
Il rapporto tra missione e organizzazione era un tema costante di questa fase e si ritrova in ogni documento di lavoro.
La forma cooperativa ci sembrò a un certo punto la scelta più logica. L’idea della cooperativa era quella di dare vita a una struttura riconosciuta ufficialmente, visibile, e in cui tutti fossero uguali e che avesse in sé anche un’idea che contenesse il nostro orizzonte ideologico e culturale.

Un nome, un progetto

La scelta del nome fu anche quello un momento di crescita. La nostra intenzione era quella di elaborare qualcosa di totalmente nuovo e Vincenzo Esposito volle spostare il confronto su questa scelta intrecciando contenuti, progetto e forza evocativa del nome. Decidemmo per convinzione, non per stanchezza.
Cercavamo un nome che non richiamasse né, come Raniero Panzieri, una sinistra tutta dentro lo spazio politico, né come Cendes, la sinistra sindacale, né così fortemente evocativo e emozionale come sarebbe stato il riferimento a Peppino Impastato, ucciso dalla mafia. Tutto questo sembrava, insomma, che ci riportasse troppo nella identità politica e che ci facesse pesare questa connotazione che noi, invece, ritenevamo una sorta di ipoteca se non altro in termini di immagine. Dedalus, tra le tante proposte, calamitò il nostro interesse. Dedalus era, poi, lo pseudonimo con il quale all’epoca Umberto Eco scriveva sul Manifesto, sviluppando un ragionamento in cui ci ritrovavamo, e che era legato al tentativo di aprire un nuovo orizzonte politico-culturale. Dedalo era, ancora, l’editore di diverse riviste che circolavano tra noi come Sapere, Monthly Review, Inchiesta, Fabbrica e Stato, oltre che del Manifesto, e di altre analoghe riviste di dibattito socioculturale e scientifico. E, infine, Dedalus era anche la modernità che affondava le sue radici nella cultura classica. Evocava la suggestione del labirinto, della ricerca di vie d’uscita. Volevamo sfuggire all’autoreferenzialità in cui sembrava imprigionata anche la nuova sinistra, in difficoltà di fronte all’avanzare del nuovo nella società e nella cultura, in particolare dell’incalzare del postindustriale che metteva in crisi tutti i paradigmi socio-economici e le categorie fino ad allora dominanti.

La nascita di Dedalus

Fu così che il 25 febbraio 1981, nel pomeriggio di un uggioso mercoledì, ci ritrovammo davanti al notaio di Santa Maria Capua Vetere, un po’ perché era più economico di altri notai napoletani e un po’ perché ci aiutò a rendere accettabile l’oggetto sociale, che noi avremmo voluto aperto a trecentosessanta gradi, proprio perché avremmo voluto avere la libertà di seguire le nostre variegate e imprevedibili intuizioni. Eravamo, con un’età media di ventotto anni, distribuiti tra i ventidue e i trentadue anni: Giuseppe Zollo, architetto in procinto di andare a insegnare economia a ingegneria (paradigmatico il suo percorso professionale!), Vincenzo Esposito, studente, impegnato, come si diceva allora, nel sociale e nelle prime esperienze lavorative e sindacali, Michele Biondo, impiegato in un centro di collegamento tra università e piccola impresa, Leopoldo Tartaglia, sindacalista, Emilio Esposito, ingegnere, Alfonso Marino, studente, il più giovane del gruppo, Rosalba Aponte, impiegata in una società di informatica, Antonio Guglielmo, operaio attivissimo dentro e fuori dalla fabbrica, Rita Monfregola, pittrice, fotografa e grafica, Guido Piccoli e Giacomo Forte, giornalisti.
Ci demmo dei ruoli ai fini del funzionamento della cooperativa: Zollo presidente, Vincenzo Esposito vicepresidente. Biondo, Forte e Tartaglia consiglieri, e poi il collegio sindacale. E con un regolamento per il funzionamento della cooperativa.
Per motivazioni diverse, alcuni componenti del nucleo promotore non entrarono a far parte della cooperativa. Ma il loro apporto fu in qualche caso fondamentale per sviluppare il nostro percorso: Mario Raffa, impegnato tra università e politica attiva, che è stato l’ispiratore di più di una scelta e il motore di più di una iniziativa sia prima sia dopo la nascita di Dedalus; Antonio Memoli, che socializzava con noi la sua esperienza nella ricostruzione, dopo il terremoto del 1980, di un complesso di case popolari a Poggioreale, invitandoci a partecipare agli incontri che organizzava con la gente, chiamata a essere protagonista nella fase di progettazione delle nuove case. Sergio Sorrentino, docente universitario che tra una traduzione e l’altra di libri e saggi di filosofia teologica dal tedesco portava nelle nostre discussioni un po’ della sua saggezza. E l’elenco potrebbe continuare ancora per molto. Ma non possiamo trascurare la figura del commercialista-amico-filantropo Luigi Infante, senza del quale la nostra cooperativa sarebbe finita in un cumulo di involontarie inadempienze. In fondo fu quando, qualche anno dopo, ci accorgemmo che ci riunivamo più spesso nel suo studio che nelle nostre provvisorie sedi, che capimmo che qualcosa andava rivisto.
La nascita della cooperativa cambiò il nostro angolo visuale. C’era uno stato d’animo da statu nascenti. Ci parve subito che Dedalus fosse un punto di arrivo e un punto di partenza. La nostra “vision”, come la si definirebbe oggi, era la realizzazione di una impresa culturale autofinanziata, in grado di creare valore d’uso, cioè nuova progettualità collettiva e individuale, in osmosi con e attività di lavoro e professionali di ciascuno, e in grado anche di creare valore nel senso di reddito da lavoro per quanti avessero voluto trovare nella cooperativa stessa uno sbocco occupazionale. Quelli inseriti nel mondo del lavoro avrebbero dovuto trainare i nuovi entranti, creando opportunità per la cooperativa. Pensavamo che una volta innescato questo circolo virtuoso, l’esperienza avrebbe avuto una lunga vita. Eravamo impegnati nel nuovo ruolo di imprenditori, ma eravamo anche un po’ tutti nella fase “di decollo” nelle nostre rispettive attività. Quindi sempre più impegnati ciascuno per suo conto. Basti pensare al lungo soggiorno di Giuseppe Zollo al Massachusetts Institute of Technology di Boston. Ma tutti con la voglia di socializzare le nostre esperienze.
Eccone alcune. Naturalmente tra un evento e l’altro, fin quando ce ne sarà uno, v’è una più o meno intensa attività della cooperativa e della sua rete di relazioni. Davamo molta importanza alla comunicazione e all’estetica, quando possibile. Gli eventi erano interpretati e illustrati da Rita Monfregola, che curava l’impostazione grafica e la realizzazione dei manifesti.
La lettura del libro “Mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno” di Gabriella Gribaudi, edito da Rosenberg & Sellier, ispirò il dibattito sul tema “Sviluppo dipendente e società meridionale”, che organizzammo al Circolo della Stampa nella Villa Comunale I’11 gennaio del 1982. Potemmo contare sul sostegno della Libreria Sapere di Gino Cusati, un libraio esperto e amico di tutti i “libridinosi” di quel periodo. Relatori, Arnaldo Bagnasco, Ermanno Corsi, Augusto Graziani, Mario Raffa e Giuseppe Zollo, che però qualche giorno prima in una partitella tra amici si era guadagnato una bella ingessatura “senza neanche segnare!”, precisava.
L’immagine di questa evento era un grande uccello costretto in una gabbia, come in un’armatura, che ne appesantiva e rallentava il volo. A simboleggiare una società che vuole riscattarsi pur essendo prigioniera.
“L’industria elettronica in Campania” fu il tema al centro del secondo evento. Un a battito che si tenne nell’aula magna del Politecnico a piazzale Tecchio il 25 marzo 1982, prendendo spunto dalla pubblicazione del libro “Decentramento internazionale e decentramento produttivo. "Il caso dell’industria elettronica” edito da Loescher, di cui erano autori Alfredo Del Monte, Claudio Ciambelli, Mario Raffa e Giuseppe Zollo. Parteciparono come relatori Massimo Bordini, Mariano D’Antonio e Salvatore Vinci. Il manifesto che pubblicizzava l’evento rappresentava una grande industria con dei grandi gomitoli di lana, i cui capi uscivano dalla ciminiera per andare a formare tante piccolissime imprese.
Per presentare l’inserto su “Informatica, potere e classi sociali” della rivista Unità Proletaria, la stessa rivista con Democrazia Proletaria Campana, il Quotidiano dei Lavoratori, il Centro Giovanile, promossero un dibattito su “La terza fase della rivoluzione industriale”, che si tenne nella Sala Santa Chiara il 13 maggio 1982. Insieme con altre cooperative, testate giornalistiche e radio, aderì all’iniziativa anche la cooperativa Dedalus. Tra i relatori, Tonino Coppola, Manolo Fantasia, Pino Ferraris e Rossella Savarese, c’era Michele Biondo per la cooperativa Dedalus, che contribuì anche con la realizzazione del manifesto, su cui la metafora della società postindustriale veniva illustrata assumendo le forme delle rappresentazioni dell’Egitto dei faraoni.
Stavamo ancora assorbendo lo shock del terremoto del novembre del 1980. Discutevamo di ricostruzione e dei bisogni totali generati in intere comunità private all’improvviso di tutto. Ne descrisse il fenomeno Giuseppe Zollo in un articolo dello speciale pubblicato dal Quotidiano dei Lavoratori. Il 16 novembre del 1983, nell’imminenza dell’anniversario, organizzammo un dibattito sul tema “Il terziario scientifico nella protezione civile e ambientale”. Ancora una volta potemmo contare sulla collaborazione della Libreria Sapere. Si tenne nella sede della Camera di Commercio di piazza Bovio. Furono invitati in veste di relatori Ugo Leone, docente di politica dell’ambiente all’Università di Napoli; Giuseppe Luongo, vulcanologo; Franco Mancusi, giornalista de “Il Mattino”; Mario Raffa, docente universitario e esponente del Comitato promotore della proposta di legge di iniziativa popolare sulla protezione civile; Gerardo Ragone, docente di sociologia economica all’Università di Napoli. I lavori furono coordinati da Ermanno Corsi, allora consigliere nazionale della Federazione della Stampa. L’immagine di questo evento era un cavallo di Troia visto attraverso strumentazioni avanzate, per disvelarne le insidie.
Decentramento produttivo, vie d’uscita dallo sviluppo dipendente, le prime avvisaglie della rivoluzione informatica nei processi in corso nel settore dell’elettronica, la società postindustriale con la centralità della conoscenza, il ruolo crescente del terziario scientifico furono tutti temi al centro delle nostre riflessioni che trovarono un momento di sintesi nel dibattito su “Tecnologia e democrazia dentro e oltre il lavoro”. Lo organizzammo insieme con la “Sezione Innovazione e Ricerca” della rivista “La Voce della Campania”, curata in quegli anni da Michele Biondo.
Il dibattito si tenne in un’affollata sala, come d’altra parte era avvenuto negli altri incontri pubblici, al Circolo della Stampa nella Villa Comunale il 4 marzo 1985. I relatori: Massimo Amodio, Fausto Bertinotti, Michele Biondo, Angelo Dina, Giuseppe Improta, Mario Raffa, Gerardo Ragone e Giuseppe Zollo. Moderatore, il direttore responsabile della Voce della Campania, Andrea Cinquegrani. L’immagine questa volta fu quella del mitico Macintosh appena nato con cappello e posa napoleonica: democrazia? dittatura? o cos’altro? Fu un confronto di grande spessore e ricchezza di elaborazione. Quella volta utilizzammo anche un bel po’ di effetti speciali grazie alla partecipazione di Datitalia Processing spa che curò per noi la registrazione su database dei partecipanti e un piccolo sondaggio. Su un grande schermo venivano proiettati grafici che davano un profilo dei presenti in sala e i risultati del sondaggio. Un dato per tutti: il 54,8% dei presenti dichiarava di aver avuto a che fare in qualche modo con l’informatica. Eravamo acceca alla vigilia dell’era informatica!
Dedalus ebbe una prima commessa per la realizzazione di un rapporto di ricerca sui problemi e le potenzialità del Porto di Napoli dall’lUA di Venezia, nell’ambito della ricerca coordinata da Ada Becchi Collidà sui “Lineamenti per il recupero del Centro storico di Napoli”, condotta per la Camera del Lavoro di Napoli.  
La ricerca sul Porto fu curato da Rosalba Aponte, Alfonso Marino e Amelia D Lanno.
Ormai luce ci separavano dagli inizi della nostra esperienza, anche se di anni ne erano passati poco meno di dieci. Era radicalmente cambiato lo scenario, il nostro modo di vedere e eravamo ciascuno sempre più impegnato nel proprio lavoro. La cooperativa perdeva pezzi “storici” per strada. Del primo nucleo ci ritrovammo a lavorare in pochi. E ci trovammo di fronte all’alternativa tra chiudere o favorire con più decisione la crescita di quella componente più giovane, acquisendo anche nuovi soci, che fosse interessata a conferire alla cooperativa una maggiore capacità di produzione e una maggiore carica di imprenditorialità. Questa evoluzione non fu rapida né del tutto indolore. Giovanni Laino, ad esempio, trovò troppo lenta questa sorta di riconversione, protestò nel suo solito stile franco e rinunciò. Ma si fece avanti un gruppo consistente di nuovi soci che assunse gradualmente la guida della cooperativa. Cera una prevalenza di sociologi. Ci fu una fase in cui quelli che oggi vengono classificati “fondatori” mantennero i contatti. Soprattutto Giuseppe Zollo, che da presidente uscente non volle far mancare il suo apporto. Ma ci furono anche altre occasioni. Ne è testimonianza il coinvolgimento della cooperativa in un paio di inchieste realizzate per conto della Voce della Campania sollecitate da Michele Biondo: una sul razzismo (pubblicata sul numero di settembre 1987 della rivista), curata da Elena de Filippo, Orlando Olmo, Maria Francesca Romaniello, Maurizio Sammmartino e Salvatore Verde Un secondo sondaggio, realizzato dallo stesso gruppo, sui referendum sul nucleare e sulla giustizia, che fu pubblicato sul numero di ottobre dello stesso anno. Naturalmente avevano uno scopo promozionale per il giornale e per la cooperativa.
Ma questo momento inizia tutta un’altra storia.

* Giuseppe Zollo, Direttore del Coinor dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Socio fondatore di Dedalus.
** Michele Biondo, Responsabile Ricerca e Sviluppo del Cesvitec di Napoli. Socio fondatore di Dedalus.
*** Vincenzo Esposito, Ricercatore all’Ires-Cgil di Napoli. Socio fondatore di Dedalus.
[in Andrea Morniroli, Maddalena Pinto, (a cura di), Sogni, bisogni, aspettative di persone normalmente differenti, Napoli, Gesco Edizioni, 2006]

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