Il Mezzogiorno, inteso come la grande questione nazionale irrisolta dall’Unità d’Italia ad oggi, è scomparso dall’agenda politica del governo e dal dibattito politico nel Paese. Anzi all’ordine del giorno dell’agenda politica del centro-sinistra c’è la questione settentrionale.
Io ritengo che la “questione settentrionale” non esiste. Esiste, invece, un grave problema di scollamento tra la parte ricca del Paese e il centro-sinistra.
Il sospetto politico e l’ostilità elettorali manifestati dal capitalismo diffuso del nord-est nei confronti della sinistra si superano attraverso politiche di lotta alle rendite, di liberalizzazione dei mercati e di stimolo alla concorrenza operando sull’efficienza e l’efficacia della macchina amministrativa statale e locale e puntando sull’affermazione di un federalismo responsabile, fondato su un rinnovato patto fiscale indirizzato soprattutto a riaffermare l’unità della Nazione.
Il nostro Paese ha un’unica vera “questione” irrisolta, quella meridionale che affonda le sue origini al momento stesso dell’unità d’Italia.
L’Italia è tutt’intera una nazione – e deve rimanere tale – per questo non può permettersi al suo interno uno squilibrio così vistoso come il divario esistente oggi tra il Nord e il Sud del Paese. La diversa velocità di crescita tra le due aree abbassa sensibilmente le medie nazionali degli indicatori economici, sottrae risorse preziose alla crescita del Paese e lo rende poco attraente per gli investitori internazionali. Inoltre, questi elevati differenziali di crescita, mortificano il capitale sociale potenziale presente nel Mezzogiorno – rappresentato in primo luogo dalle migliaia di giovani ad alta scolarità – marginalizzando grandi aree del territorio nazionale e larga parte della popolazione rispetto alle occasioni di sviluppo.
Per questi motivi la Questione meridionale è un tema cruciale per definire l’identità e la qualità del “sistema Italia” e le sue prospettive di crescita sociale, culturale ed economica. Il Mezzogiorno è contemporaneamente un freno allo sviluppo del Paese e un’opportunità imprescindibile per la sua crescita.
Alle questioni di arretratezza culturale, sociale ed economica, ereditate dall’unità d’Italia (legge sulla coscrizione obbligatoria, latifondismo, esproprio della finanza locale, incapacità della borghesia meridionale di immaginare se stessa come “ceto produttivo” rimanendo cortigiani senza corte) si sono aggiunte, nel corso del tempo, quelle prodotte dalla politica per il meridione portata avanti dalla Cassa per il Mezzogiorno con un uso distorto delle politiche di sostegno pubblico – i cosiddetti interventi a pioggia – e dal fallimento delle politiche pubbliche d’industrializzazione.
L’insieme di questi processi ha determinato una fase di declino industriale del Mezzogiorno che il complesso degli strumenti ordinari e straordinari messi in campo, come la concertazione e i patti territoriali, certamente, da soli, non saranno in grado di recuperare i gap differenziali sullo sviluppo che separano il Mezzogiorno dall’Italia e dall’Europa.
L’unico elemento di novità è che alle politiche centraliste di spesa pubblica si sono sostituite quelle locali, che praticano, però, una sorta di democrazia senza progetto, parcellizzando ancora di più gli interventi. Quando, ad esempio, in una regione come la Campania sono in essere centinaia di progetti di sviluppo locale è come se non ce ne fosse alcuno perché nessuna delle iniziative messe in campo raggiungerà mai la massa critica necessaria per determinare un effetto volano. In questo quadro le politiche di sviluppo locale non saranno in grado di produrre risultati significativi per ordire il territorio.
La politica di spesa indiscriminata ha favorito il formarsi di una borghesia parassitaria che ha intrapreso solo a fronte di commesse pubbliche o di finanziamenti pubblici. Le enormi risorse messe a disposizione e mediate da un ceto politico, anch’esso parassitario, hanno attirato l’interesse di una malavita imprenditoriale che si è impossessata di interi settori produttivi, imponendo, nei fatti, condizioni di monopolio intaccabili dall’imprenditoria sana.
Il primo effetto degenere delle politiche di spesa indiscriminata è stato l’emergere, al fianco del ceto politico – spesso fattosi esso stesso imprenditore – di un ceto imprenditoriale assistito che nascendo e organizzandosi per spendere è totalmente legato al ceto politico che l’ha prodotto, vive in simbiosi con esso: si costruiscono e realizzano progetti e attività imprenditoriali semplicemente in funzione dei finanziamenti. La mano pubblica non rappresenta, semplicemente, il giusto aiuto allo start-up ma è il carburante del ciclo. Il “ciclo imprenditoriale” non è più l’intrapresa, non nasce da un’idea imprenditoriale in cerca di “capital venture” o di aiuto pubblico in sua sostituzione – le agenzie per lo sviluppo nord-europee – attorno cui si costruiscono strumenti, piani di fattibilità e s’individuano le risorse necessarie. No. Individuati e studiati i finanziamenti e gli appoggi disponibili, si costruiscono ipotesi imprenditoriali che vivono una vita effimera che ha la stessa durata dei finanziamenti attivati. Si fa per spendere, non si spende per fare.
Amici e nemici, teorici e critici, del sistema parassitario sorto attorno alla spesa pubblica, si sono ritrovati assieme, senza soluzione di continuità e senza alcuna analisi critica sul passato, a governare gran parte delle amministrazioni meridionali.
È da qui che dovrebbe partire una riflessione critica sull’incapacità manifestata dal centro-sinistra di realizzare una politica di modernizzazione, come dimostrano tutti gli indicatori economici a partire dall’ultimo rapporto della Svimez e come ci ricordano le irrisolte questioni dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani e dell’inquinamento ambientale prodotto dallo smaltimento incontrollato di quelli industriali, il riproporsi dell’emergenza idrica e l’ampliamento delle aree d’influenza territoriale della malavita organizzata.
Dopo la fase dell’antipolitica è giunta l’ora di iniziare a interrogarsi sullo svuotamento della democrazia rappresentativa e l’affermarsi – al tempo del centro-sinistra al governo – di un mix di populismo e autoritarismo che ha svuotato le assemblee elettive di ogni capacità di confronto programmatico e di controllo sulla gestione amministrativa e ridotto i partiti politici a confederazioni di comitati elettorali svuotati al loro interno da ogni elementare livello di democrazia formale e di dibattito politico.
In questi anni abbiamo assistito all’affermarsi di forme inedite e originali di gestione del federalismo regionale. Lo svuotamento dei partiti e della loro funzione pubblica di luoghi di aggregazione, elaborazione e partecipazione politica e l’emergere dell’antipolitica, spesso camuffata da “società civile”, ha favorito un meccanismo che ha spostato l’asse dell’azione politica dalla pratica del governo dei processi alla loro gestione amministrativa.
Il rapporto diretto del leader con la “società civile” e la rinuncia alla funzione propria della politica – scegliere interessi e soggetti da rappresentare ed esercitare la funzione del governo – a favore di una prassi che ha favorito la distribuzione capillare e indifferenziata di risorse pubbliche, ha costruito un sistema originale di “democrazia senza progetto” nel quale il non-governo produce un forte aumento del consenso elettorale.
Inoltre il passaggio dalla politica delle scelte alla politica della spesa ha depotenziato l’opposizione, in parte l’ha assorbita, e ha ridistribuito i pesi specifici all’interno della alleanza. In questo contesto i partiti meglio organizzati nella gestione della spesa pubblica hanno consolidato e ampliato le loro aree di consenso. Allo sfascio della sanità pubblica fanno da contraltare le ottime performance elettorali dei suoi gestori. La forte capacità progettuale manifestatasi nel settore dei trasporti non inficia il ragionamento svolto. Infatti, il settore dei trasporti è un comparto nel quale per spendere bisogna necessariamente programmare.
In questo contesto di afasia – nel quale anche la cosiddetta società civile vive di consulenze, favori e cooptazioni – è arduo riaprire una discussione sulla Questione meridionale e definire una possibile via d’uscita ma è giusto provarci.
La ripresa di una politica per lo sviluppo del Mezzogiorno deve partire da una considerazione di fondo: la necessità di avere politiche complementari per lo sviluppo del Sud. Politiche regionali di sostegno ai sistemi locali e, simultaneamente, politiche nazionali finalizzate alla crescita del sistema meridionale. L’insieme di queste politiche va declinato nell’ambito di una politica nazionale ed europea per il Mediterraneo.
Il movimento ambientalista ha creato un neologismo efficace per indicare una nuova prospettiva anche al movimento neomeridionalista: pensare glocale che, nell’era dell’economia della conoscenza e delle reti, significa ricollocare concettualmente la questione meridionale sia rispetto all’attuale fase di sviluppo del capitalismo nazionale e internazionale sia rispetto alle dinamiche dei vari sistemi locali e territoriali e alle loro vocazioni.
Se non si vuole perdere la sfida della modernità, bisogna scegliere, con coraggio, la strada meno facile: dispiegare un’iniziativa programmatica che non sia la mera sommatoria dei singoli problemi e delinei, invece, una prospettiva programmatica per il Mediterraneo, valida per il sistema Italia, colmando, per questa via, un deficit programmatico – non esistono Paesi che innovano senza avere una propria base industriale – che non appartiene solo al centro-destra.
Il Sud non può, realisticamente, giocare un ruolo nelle dinamiche europee, alla luce delle scelte già effettuate dalle economie forti di privilegiare l’Est Europa, senza cambiare prospettiva strategica, definire nuovi paradigmi.
Il Sud, cambiando prospettiva, scegliendo di ripartire dal Mediterraneo, può giocare un ruolo formidabile di baricentro sistemico rispetto alle politiche d’interazione tra l’Europa e il bacino medio - orientale e del nord dell’Africa. La questione meridionale va ricollocata all’interno della proposizione della Questione Mediterranea, dove non solo il Meridione d’Italia può giocare un ruolo di catalizzatore e promotore di risorse materiali e immateriali, ma può trovare anche, in una logica di cooperazione e scambio egualitario, una possibile dimensione territoriale verso cui indirizzare il proprio sviluppo.
Prima di discutere di procedure e deleghe, per il dispiegarsi di una politica nazionale per il Mezzogiorno, bisogna definire meglio gli ambiti istituzionali, ripartendo dalla discussione sulla macroregione meridionale, proposta, a suo tempo, dalla Fondazione Agnelli. Intanto si può pensare a forme di coordinamento interregionale, a partire dall’utilizzo comune dell’ultima trance di finanziamento europeo – il Por 2007-2013 – che andrebbe finalizzato alla risoluzione di alcune questioni strutturali e, nello stesso tempo, all’individuazione degli assi su cui puntare per rendere competitivo l’insieme del Mezzogiorno, trasformandolo da entità geografica depressa a sistema territoriale integrato.
Non può essere ulteriormente ritardato l’avvio di un processo che trasformi il nostro territorio in luogo in cui sorgano e si attrezzino centri di accoglienza di eccellenze in grado di realizzare e supportare iniziative industriali, produttive, di servizio da offrire ai sistemi locali, sapendo che l’ancoraggio non sarà garantito eternamente: sarà il mercato a determinare la crescita dei vari sistemi produttivi, per questo l’integrazione e l’intreccio dovranno essere implementate nel tempo con capacità operative e professionali diffuse sul territorio che sono ancora tutte da costruire. Queste politiche territoriali dovranno essere programmate in funzione di un’azione di stimolo e attrazione nei confronti del mondo imprenditoriale nazionale e internazionale.
Sarà necessario per questo ricercare e formare tecnostrutture esperte di sistemi locali dotate di risorse economiche e competenze tecnologiche che le pongano nelle condizioni di riconoscere, identificare, programmare e risolvere urgenze e bisogni di strutture e infrastrutture per l’accoglimento di singoli insediamenti, singole aziende, singole imprese.
Un sistema territoriale per realizzare competitività deve garantire una serie di accessi agevolati e di qualità, tra questi il sistema infrastrutturale immateriale rappresenta uno dei principali fattori di competitività economica e di sviluppo.
Inoltre, sulle opportunità di concorrenza e di allocazione di nuove attività gravano pesantemente gli indicatori relativi all’efficacia politica, frenata ancora dall’eccessivo peso della burocrazia e da un’elevata percezione di rischio corruzione e, infine, ma non per ordine d’importanza, i bassi livelli di sicurezza e gli alti tassi di criminalità.
Il sistema di finanziamento pubblico che negli anni passati ha investito in questo ambito ha privilegiato esclusivamente l’infrastrutturazione materiale e ha prodotto numerose dispersioni e distrazioni di capitali tali da realizzare un sistema apparentemente ricco ma funzionalmente caotico e non equilibrato: sia per quanto concerne la sua estensione a rete o di dislocazioni puntuali sul territorio in rapporto alle esigenze di accessibilità fisica, sia per quanto riguarda la possibilità di utilizzazione delle diverse modalità di trasporto e comunicazione in rapporto alle loro caratteristiche; tanto che oggi s’impone una riorganizzazione e una razionalizzazione dell’intero sistema di mobilità fisica delle cose e delle persone e va riprogettato quello della mobilità immateriale delle risorse.
Il Mezzogiorno si trova ancora ad affrontare questioni nate all’indomani dell’Unità d’Italia. Si pensi solo al fatto che la Puglia, regione storicamente legata a Napoli, è stata lentamente e costantemente portata a spostare la propria sfera di rapporti dall’asse tirrenico a quello adriatico: ancora oggi non esiste un efficace collegamento su strada o su ferro tra Foggia e Napoli o tra Bari e Napoli.
A partire da queste considerazioni una politica per il Mezzogiorno può svilupparsi individuando quattro assi di sviluppo e d’integrazione all’interno di questa realtà:
- l’asse d’integrazione tra la provincia di Napoli e la Puglia, il vecchio tragitto di Via Nazionale delle Puglie;
- l’asse d’integrazione tra il Beneventano e il Molise, il Molisannio;
- l’asse “tirrenico” che si sviluppa sul percorso Napoli - Salerno - Reggio Calabria;
- il collegamento tra Tirreno e Adriatico, attraverso l’asse Salerno, Potenza, Bari.
Le politiche territoriali dovrebbero sviluppare una razionale politica d’integrazione tra questi assi e favorire, contemporaneamente, la creazione di un insieme di reti, materiali e immateriali, per consentire l’intermobilità e l’interscambio tra gli assi e i nodi del sistema Mezzogiorno per realizzare la piena mobilità di persone e merci.
Il Mezzogiorno non ha bisogno di liberare ulteriori risorse economiche da distribuire senza un progetto, necessita, invece, di un movimento che, liberando energie politiche culturali e intellettuali, metta in rete idee e persone, trasformandole in un soggetto politico che assuma la questione meridionale come l’asse della propria iniziativa programmatica e si faccia promotore di un’interlocuzione nazionale con le forze economiche e sociali disponibili a individuare i punti di forza e d’eccellenza da cui partire per costruire un patto di sviluppo del Paese a partire dalla risorsa Mezzogiorno.
Va realizzata la rete di sistema dove tutti i sottosistemi (mobilità su ferro, sistema stradale, porti, aeroporti, interporti, reti telematiche) siano pensati in uno individuando, senza gerarchie funzionali, punti d’interconnessione che non rappresentino un intervallo o una rottura del sistema ma luoghi di scambio tra mobilità realizzando, di fatto, una continuità a oggi inesistente.
Quanto detto vale per tutto il Mezzogiorno: il potenziamento delle reti e dei nodi di collegamento immateriale costituisce un elemento strategico essenziale per attuare un programma d’interventi per lo sviluppo perché le reti immateriali sono un’infrastruttura essenziale per la produzione, il lavoro, il commercio, la cultura, l’istruzione, lo studio e il tempo libero.
Nell’economia della conoscenza la qualità e la diffusione delle reti telematiche e la presenza di capitale sociale diffuso sono gli elementi che, non solo offrono la possibilità di superare le gerarchie territoriali che la mobilità fisica invece imponeva, determina le opportunità di crescita di un’area.
In un mondo che richiedeva “la presenza fisica” il Mezzogiorno giocava un ruolo marginale.
Attualmente, la richiesta di attività terziarie è focalizzata prevalentemente nell’area milanese e nel nord-est, l’inadeguatezza della rete di mobilità al Sud e la sua lontananza fisica dall’offerta di opportunità non consentiva la messa in rete delle risorse, le intelligenze e le competenze pur presenti in esso.
La rete capovolge le gerarchie: non è più importante dove sei ma, piuttosto, cosa sai fare!
Quest’opportunità per essere reale richiede l’approntamento delle infrastrutture fisiche attraverso l’adeguamento tecnologico delle reti telematiche, e la realizzazione dei supporti fisici adeguati per la trasmissione ad alta velocità delle informazioni.
L’infrastrutturazione delle reti cablate è il nuovo confine della modernità: al di là o al di qua dell’innovazione si giocheranno le nuove opportunità per i nostri giovani e per il nostro territorio.
L’affanno continuo con cui si è operato non ha mai concesso l’opportunità di attuare e affermare uno sviluppo sistemico che realizzasse il necessario intreccio tra potenzialità, risorse, qualità, bisogni e territorio.
Il profilo di una moderna politica riformista, quindi, si misura a partire dalla sua capacità di porre al centro del dibattito politico il Mezzogiorno.
La sinistra ha la necessità di ricostruire una presenza credibile nel Mezzogiorno. I punti programmatici da offrire alla discussione devono essere pochi e chiari; prefigurare soluzioni, non sommare problemi; consentire una concentrazione rilevante di risorse umane e finanziarie per realizzare le necessarie masse critiche capaci di innescare un circolo virtuoso di sviluppo e di modernizzazione.
Le regioni meridionali sono afflitte, in modo omogeneo, dal problema dell’illegalità e dell’inefficienza della pubblica amministrazione che, insieme, costituiscono il più forte disincentivo agli investimenti nel Mezzogiorno. L’illegalità diffusa trova la ragione prima della sua espansione e il suo alimento, nell’assoluta assenza d’ordinarietà, fruibilità e certezza dei diritti. L’efficacia e all’efficienza delle procedure ordinarie della pubblica amministrazione a tutti i livelli sono lo strumento per garantire ai cittadini e al sistema delle imprese trasparenza, certezza delle procedure ed equità.
Il controllo del territorio in vaste aree del Mezzogiorno continua a essere monopolio delle organizzazioni criminali, eppure gran parte delle amministrazioni locali e regionali del Mezzogiorno – escluso la Sicilia – sono governate da alleanze di centro-sinistra. Nonostante ciò, non è partita una grande opera di contrasto alla malavita attraverso il ripristino dell’ordinarietà, per portare anche al Sud lo Stato, inteso sia come insieme di norme esigibili che regolano la convivenza civile sia come certezza nazionale di fruibilità di diritti unici e inalienabili ed esigibili a Napoli come a Milano.
Assistiamo, invece, all’affermarsi di una sorta di gattopardismo di tanta supposta sinistra, radicale a Roma e, salvo alcune lodevoli eccezioni, subalterna e silente ai “mediatori” nel Mezzogiorno, anzi spesso essa stessa mediatrice.
Una politica di concertazione meridionale, pena il suo fallimento, deve essere in grado di individuare anche dove sia più conveniente allocare una determinata produzione, ragionando non in un’ottica localistica bensì di sistema, come rete di opportunità, altrimenti una politica di sviluppo coordinata non dispiega i suoi effetti virtuosi sull’ambiente.
In assenza di una politica nazionale per lo sviluppo, anche quando si portassero a termine tutti questi processi, essi, di per sé, non sarebbero sufficienti a risolvere i problemi del Mezzogiorno.
Il Paese ha bisogno di una politica nazionale ma non centralistica che sappia intrecciare il problema del Mezzogiorno con quello di una politica di contrasto al suo declino industriale.
Per politica nazionale intendiamo una politica governativa che definisca un insieme di opportunità in grado di attivare un circolo virtuoso di crescita coerente con gli obiettivi strategici di riorganizzazione dell’apparato produttivo nazionale. Fermo restando la libertà di intraprendere degli agenti economici la politica dovrebbe definire, attraverso la leva della spesa e quella delle commesse pubbliche, ambiti, settori e attività coerenti con i progetti di ricollocazione produttiva del Paese e sostenerli adeguatamente. È quanto l’Amministrazione Clinton, sotto l’impulso di Al Gore, ha fatto negli Stati Uniti d’America – la patria del liberismo economico – attraverso il progetto delle autostrade digitali, ha orientato il mercato e la produzione attraverso la spesa, per realizzare la necessaria massa critica di concentrazione di attività innovative, riconquistando la leadership mondiale dell’innovazione.
La residualità della presenza industriale nazionale e meridionale, paradossalmente, ci mette nelle condizioni di poter osare una vera politica dell’innovazione che sappia intrecciare la lotta al degrado del territorio con la valorizzazione delle risorse naturali materiali e immateriali e con politiche di sviluppo sostenibili e innovative.
Si dovranno riannodare i fili di quel mare in tempesta che separa lavoro e formazione virando con decisione verso lidi che altrove sono stati ampiamente sperimentati come quello della formazione continua (negli Stati Uniti la formazione continua raggiunge mediamente l’ottantacinque per cento dei lavoratori, in Europa il quarantasette per cento, in Italia il venticinque per cento dei lavoratori).
Un sistema formativo efficiente, però, si può realizzare solo in presenza di un sistema scolastico efficiente e su questo dovremo iniziare a discutere perché è sotto gli occhi di tutti, pur in presenza di lodevoli eccezioni, il degrado complessivo del nostro sistema scolastico.
Per invertire questa tendenza si dovranno realizzare contatti e contiguità tra il mondo dell’istruzione e quello del lavoro. Saranno queste le premesse indispensabili affinché lentamente, e purtroppo in ritardo, tutto il sistema meridionale possa avviarsi verso quello che viene definito “sviluppo sostenibile”. Tuttavia esso proporrà scelte coraggiose e in alcuni casi dolorose. Non sarà più possibile continuare ad affermare, come si è fatto in passato, che tutto è da sviluppare e che tutto è strategico. Quest’approccio acritico ai temi della crescita delle aree depresse ha procurato danni, impoverito gli strumenti di sostegno che a livello centrale e locale sono stati attuati e ha esposto l’apparato produttivo agli assalti decisi ed efficaci di scelte che altrove, attuate per tempo e con efficacia, hanno determinato la leadership vera d’interi sistemi nazionali e sovranazionali.
Lo sviluppo sostenibile non è solo industrie a qualunque costo, ma anche servizi, strutture, tutela dei beni e del territorio.
Sviluppo sostenibile, non significa scuole in gran numero e dappertutto, ma insediamenti d’istruzione che sappiano leggere vocazioni territoriali e connessione con il mondo del lavoro e siano in grado di offrire la risorsa che sempre più è richiesta dal mercato: conoscenza e sapere diffuso.
Conoscenza e sapere diffuso non è formazione professionale per accogliere e intrattenere allievi in attesa del miracolo, sperperando ingenti quantità di risorse umane e finanziarie; è, piuttosto, analisi dei fabbisogni e orientamento consapevole: il sistema formativo non dovrà solo assecondare un sistema imprenditoriale che continua a ritagliarsi esigenze legate all’immediato senza porsi alcuna prospettiva di qualità e di sfida, sarà necessario orientare l’utenza e qualificare formatori e ricercatori della formazione per attuare progetti e modelli formativi puntando all’integrazione tra aspettativa di lavoro e qualificazione professionale agendo sui fattori dell’occupabilità.
Lavorare per la qualità del territorio inteso come bacino in cui interagiscono coerentemente e armonicamente preesistenze, reti – materiali, virtuali – e sistema finanziario può realizzare un’inversione di tendenza al sistema di degrado ambientale, produttivo e sociale verso cui abbiamo una responsabilità morale e politica cui non possiamo abdicare.
Le regioni meridionali devono candidarsi a essere uno dei luoghi naturali deputati alla sperimentazione delle tecnologie legate all’idrogeno e alle fonti rinnovabili. Una nuova politica energetica deve porre al centro della iniziativa pubblica il sostegno alla ricerca pubblica e privata anche attraverso una forte integrazione tra il sistema universitario meridionale, quello della ricerca e quello delle imprese anche attraverso una politica di spin-off.
Per superare il divario Nord-Sud nei servizi ad alto valore aggiunto, le regioni meridionali devono lanciare un proprio progetto che, a partire dalle telecomunicazioni, dove maggiore è il divario territoriale, punti alla realizzazione di reti pubbliche, separando, finalmente, la gestione e la manutenzione della rete da quella dei servizi attraverso, ad esempio, un consorzio tra fornitori di servizi e regioni per cablare in fibra ottica tutto il territorio meridionale. Si costituirebbe, così, un mercato potenziale di dimensioni notevoli, che supportato da un’adeguata politica tariffaria, favorirebbe anche la nascita di nuove imprese e di servizi ad alto valore aggiunto.
Il consistente patrimonio archeologico, monumentale e culturale del Mezzogiorno è la base di partenza su cui sviluppare una politica del tempo libero che superi l’idea del sostegno al turismo inteso come aiuto alla costruzione di alberghi e ristoranti e inizi, invece, ad affermare un idea del turismo inteso come cross-over di tecnologie e risorse che ponga in rete risorse materiali e immateriali che trasformi il Mezzogiorno in un enorme parco a tema integrato, e assuma il turismo come elemento trasversale alle politiche di sviluppo alle quali finalizzare un intervento a tutto campo: sostegno al commercio elettronico di prodotti tipici, costruzione di siti web, digitalizzazione del patrimonio ecc.
Le preesistenze rilevanti nella ricerca biomedicale e dell’ingegneria genetica sono una base su cui è possibile reindirizzare e concentrare un’intuizione giusta come i Centri di competenza per candidare il Mezzogiorno e la Campania in particolare al ruolo di Polo nazionale della ricerca nel settore.
Porre la questione meridionale nell’ambito della questione del Mediterraneo significa anche individuare settori strategici, a partire dall’agro-industria e dalla gestione delle acque (desalinizzazione e potabilizzazione), sui quali costruire una politica di cooperazione tra i Paesi mediterranei. Il rilancio internazionale dell’Italia passa attraverso una politica nazionale per il Mezzogiorno.
Le Università meridionali, coordinandosi e operando in sinergia, potrebbero sviluppare un progetto di lungo periodo, foriero di risultati positivi, anche per una politica di pace, potrebbe essere rappresentato dalla costituzione di un Istituto Universitario del Mediterraneo, a carattere residenziale, sul modello dei college, per aiutare la formazione di una classe dirigente mediterranea cosmopolita. Se la Questione meridionale diventa Questione Mediterranea, allora, forse, siamo entrati di nuovo in sintonia con i processi della storia e potremmo finalmente operare per chiudere, in modo definitivo, la ferita che si è aperta, all’indomani dell’Unità d’Italia, tra il Sud e il resto del Paese quando, in realtà, il Regno delle due Sicilie fu annesso al Regno sabaudo, e aprire, invece, una fase di “unità nazionale”, un nuovo patto tra Nord e Sud del Paese per rilanciare il ruolo dell’Italia in Europa e nel Mediterraneo.
La gestione dell’emergenza ambientale scaturita dall’incapacità di affrontare e risolvere la questione dei rifiuti in Campania e il caso Cuffaro in Sicilia hanno evidenziato una incapacità del ceto politico meridionale di autoriformarsi.
L’abnorme spreco di risorse pubbliche nella non gestione del ciclo dei rifiuti evidenzia che il partito unico della spesa è impermeabile ad ogni cambiamento.
Il Mezzogiorno si presenta come un organismo colpito da metastasi – gli effetti della spesa – che viene costantemente sottoposto a trasfusioni di sangue – la gestione della spesa – che invece di curare l’organismo favoriscono la diffusione delle metastasi.
In questo conteso l’unica medicina efficace per sconfiggere le metastasi è smetterla con le trasfusioni. Si obbietterà che in questo modo si uccidono le metastasi ma anche l’organismo. Non è detto. Di fronte al fallimento di un’intera classe politica per salvare il Mezzogiorno bisogna ricollocare le politiche di sviluppo locale nell’alveo delle politiche pubbliche nazionali, dividendo le attività progettuali dalla gestione della spesa. Bisogna dialogare con il territorio, individuare progetti di sviluppo locali, credibili, efficaci e e praticabili, e poi immaginarsi un’agenzia, una tecnostruttura alle dipendenze del Ministero dello Sviluppo che gestisca la spesa per steep e liberi le varie tranche solo dopo verifiche di effettivo avanzamento dei lavori. Una siffatta via, lascando alle autonomie locali esclusivamente la gestione dell’ordinario, prosciugherebbe i mille rivoli di risorse finanziarie che alimentano il consolidamento della burocrazia della spesa senza sviluppo.
Il rapporto di confronto tra i territori e l’agenzia di sviluppo favorirebbe, forse, l’emergere di una nuova classe politica che, impossibilitata a spendere, sarebbe costretta a ricercare il consenso sulla propria capacità di costruire progetti per il territorio finanziabili e credibili. Un ragionamento di questo tipo potrebbe riprendere il lavoro avviato dall’allora Ministro dell’Economia Carlo Azeglio Ciampi con il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo quando in un dialogo con i territori vennero individuati una serie di progetti per piccole buone pratiche.
La proposta di riportare al centro la politica di spesa nasce dalla convinzione che «Questo sistema, che pur si diversifica nei vari territori regionali e subregionali, per potersi riprodurre ha bisogno di due elementi determinanti: una quota crescente di risorse pubbliche ed una riduzione del conflitto e del controllo come contenuti della democrazia».
Un’impostazione di questo tipo prosciugherebbe il brodo di coltura dove prospera la “società civile delle consulenze” che alimenta e si alimenta in osmosi con il sistema politico e mortifica l’emergere di competenze effettive e di nuove élite politiche e culturali.
Questo sarà «un percorso difficile ma nel tempo carico di frutti: contribuirà a consolidare il tessuto sociale, stimolerà gli amministratori locali ad una gestione adeguata della cosa pubblica, porrà le condizioni di un uso più efficiente e appropriato delle ingenti risorse finanziarie destinate nei prossimi anni al Mezzogiorno» che dovrà puntare sul «diretto coinvolgimento delle imprese nel processo di realizzazione e di progettazione dell’innovazione e la nascita di imprese knowledge-based».
In conclusione ritengo che «dobbiamo darci da fare perché qui e ora si possa innestare un processo diffuso di apprendimento […] basato su due postulati: nessuno può imparare niente se non è convinto che sia necessario; nessuno può imparare niente se non a partire da quello che già sa». Per declinare efficacemente questo assunto è necessario porre al centro dell’iniziativa politica e culturale la questione morale intesa come definizione di un nuovo dizionario della cittadinanza nel quale parole come: “fiducia”, “condivisione”, “trasparenza”, “responsabilità”, “sperimentazione”, “innovazione” riacquistino il loro significato vero e diventino il lessico di una nuova classe dirigente.