Il Mezzogiorno, inteso come la grande questione nazionale irrisolta dall’Unità d’Italia a oggi, è scomparso dall’agenda politica del governo e dal dibattito politico nel Paese.
Non ve n’è traccia né nella discussione del costituendo Partito Democratico, né tanto meno nel dibattito in corso nella Casa della libertà. Anzi, all’ordine del giorno dell’agenda politica del centro-sinistra c’è la questione settentrionale.
La «questione settentrionale» esiste solo come problema di credibilità politica del centro–sinistra nei confronti dell’elettorato del settentrione, non esiste, invece, come questione nazionale, esiste soloun grave problema di scollamento tra la parte ricca del Paese e la coalizione di centro-sinistra.
Il sospetto politico e l’ostilità elettorali manifestati dal capitalismo diffuso del nord-est nei confronti della sinistra si superano attraverso politiche di lotta alle rendite, di liberalizzazione dei mercati e di stimolo alla concorrenza operando sull’efficienza e l’efficacia della macchina amministrativa statale e locale e puntando sull’affermazione di un federalismo responsabile, fondato su un rinnovato patto fiscale indirizzato soprattutto a riaffermare l’unità della Nazione, non già inventandosi una “questione settentrionale”.
Il nostro Paese ha un’unica vera «questione» irrisolta, quella meridionale che affonda le sue origini al momento stesso dell’Unità d’Italia.
L’Italia è tutta intera una nazione – e deve rimanere tale – per questo non può permettersi al suo interno uno squilibrio cos’vistoso come il divario esistente oggi tra il Nord e il Sud del Paese. La diversa velocità di crescita tra le due aree abbassa sensibilmente le medie nazionali degli indicatori economici, sottrae risorse preziose alla crescita del Paese e lo rende poco attraente per gli investitori internazionali. Inoltre, questi elevati differenziali di crescita, mortificano il capitale sociale potenziale presente nel Mezzogiorno – rappresentato in primo luogo dalle migliaia di giovani ad alta scolarità – marginalizzando grandi aree del territorio nazionale e larga parte della popolazione rispetto alle occasioni di sviluppo.
Per questi motivi la Questione meridionale è un tema cruciale per definire l’identità e la qualità del «sistema Italia» e le sue prospettive di crescita sociale, culturale ed economica. Il Mezzogiorno è contemporaneamente un freno allo sviluppo del Paese e un’opportunità imprescindibile per la sua crescita.
Alle questioni di arretratezza culturale, sociale ed economica, ereditate dall’unità d’Italia (legge sulla coscrizione obbligatoria, latifondismo, esproprio della finanza locale, incapacità della borghesia meridionale di immaginare se stessa come «ceto produttivo» rimanendo cortigiani senza corte) si sono aggiunte, nel corso del tempo, quelle prodotte dalla politica per il meridione portata avanti dalla Cassa per il Mezzogiorno con un uso distorto delle politiche di sostegno pubblico – i cosiddetti interventi a pioggia – e dal fallimento delle politiche pubbliche d’industrializzazione.
Le strategie industriali perseguite nel tempo si sono mosse, in larga misura, in continuità con una filosofia di politiche d’intervento centraliche ha teorizzato, programmato e finanziato la presenza nelle aree a forte deficit industriale di tutti i settori considerati strategici senza mai attuare quelle decisioni, necessarie e obbligate, che in altri Paesi europei hanno portato alla nascita e alla crescita internazionale di aziende e settori di eccellenza d’indiscutibile efficienza.
La politica portata avanti dalle Partecipazioni Statali – dall’Iri in primo luogo – ha favorito l’allocazione produttiva al Sud di attività manifatturiere che non hanno mai verticalizzato i loro cicli produttivi – le famose cattedrali nel deserto –inoltre, le Partecipazioni Statali hanno portato avanti una pratica di gestione degli appalti e dei sub-appalti che ha consentito lo sviluppo e il consolidamento della «mala-imprenditoria» a discapito e spesso contro la buona imprenditoria.
In questo quadro, un’eccezione significativa – un caso di «buona» politica industriale – è stata la gestione dell’Alfa guidata da Massaccesi e le iniziative di Pistorio con la SGS-Thompson. La vacuità delle politiche pubbliche d’industrializzazione è dimostrata dal fatto che alla fine dei cicli di ristrutturazione aziendali degli anni ottanta le imprese pubbliche «acefale» nel Mezzogiorno sono tutte scomparse e le uniche presenze rilevanti rimaste nella nostra area sono l’Alfa (oggi Gruppo Fiat Auto) e la STMicroelectronics già SGS.
L'effetto dii questi processi è sotto gli occhi di tutti:nonostante le ingentirisorse messe incampo, l’industrializzazione e la modernizzazione del Mezzogiorno sono fallite.
E laddove le politiche governative hanno assolto il solo compito di promulgare interventi di sostegno,sono stati gli imprenditori e le forze politiche e sociali locali ad affermare una politica di interventi indifferenziati che ha formato un ceto dirigente attrezzato solo per il piccolo cabotaggio e contraddistinto da una scarsa lungimiranza imprenditoriale.
I processi di riorganizzazione delle grandiimprese e deigrandi settori hannospostato il baricentro industriale immancabilmente, ma non inevitabilmente, verso il Nord del Paese. Questa tendenza ha interessato anche aziende nelle quali i processi di ristrutturazione delle singole unità produttive al Sud erano più avanzati che al Nord.
I cicli di ristrutturazione che hanno interessato il sistema industriale nazionale ci hanno consegnato una realtà produttiva indebolita e ridimensionata sia nelle filiere che nelle unità locali.
I «poli industriali» preesistenti nel Mezzogiorno, anche quelli di eccellenza,sono usciti cancellati o, quantomeno, fortemente ridimensionati dai processi di riorganizzazione delle grandi imprese e dei comparti: basti citare per tutti l’aerospaziale, le telecomunicazioni, l’informatica, l’elettronica di consumo e l’agroalimentare.
La realtà economica, sociale e produttiva del Mezzogiorno continua a essere segnata da uno sviluppo insufficiente a rispondere ai problemi di degrado ed esclusione sociale. Il nostro sistema produttivo e imprenditoriale, fatte salve alcune «eccezioni», è nei fatti inadeguato a rispondere, sia quantitativamente che qualitativamente, ai problemi occupazionali che interessano l’intera area perché si presenta, nella sua più ampia articolazione, con un apparato appesantito da ristrutturazioni parziali ed inefficaci e da strategie inadeguate e poco incisive.
Purtroppo, le azioni necessarie per dare competitività ai singoli sistemi sono state attuate tardivamente scontando una relativa efficacia operativa e sono state prevalentemente mirate a migliorare il rapporto produzione-prestazione piuttosto che le politiche d’impresa e i lay–out organizzativi.
Il notevole patrimonio di piccole e medie imprese locali, salvo rare eccezioni, è stato seriamente minato, nella sua esistenza e nelle sue potenzialità, da politiche di mercato orientate alle nicchie di prodotto e da una politica di sostegno agli investimenti in qualità, sia sul versante tecnologico che su quello delle risorse umane, di scarso rilievo.
L’insieme di questi processi ha determinato una fase di declino industriale del Mezzogiorno che il complesso degli strumenti ordinari e straordinari messi in campo, come la concertazione e i patti territoriali, certamente, da soli, non saranno in grado di recuperare i gap differenzialisullo sviluppo che separano il Mezzogiorno dall’Italia e dall’Europa.
L’unico elemento di novità è che alle politiche centraliste di spesa pubblica si sono sostituite quelle locali, che praticano, però, una sorta di democrazia senza progetto, parcellizzando ancora di più gli interventi. Quando, ad esempio, in una regione come la Campania sono in essere centinaia di progetti di sviluppo locale è come se non ce ne fosse alcuno perché nessuna delle iniziative messe in campo raggiungerà mai la massa critica necessaria per determinare un effetto volano. In questo quadro le politiche di sviluppo locale non saranno in grado di produrre risultati significativi per ordire il territorio.
La politica di spesa indiscriminata ha favorito il formarsi di una borghesia parassitaria che ha intrapreso solo a fronte di commesse pubbliche o di finanziamenti pubblici. Le enormi risorse messe a disposizione e mediate da un ceto politico, anch’esso parassitario, hanno attirato l’interesse di una malavita imprenditoriale che si è impossessata di interi settori produttivi, imponendo, nei fatti, condizioni di monopolio intaccabili dall’imprenditoria sana.
Il primo effetto degenere delle politiche di spesa indiscriminata è stato l’emergere, al fianco del ceto politico – spesso fattosi esso stesso imprenditore – di un ceto imprenditoriale assistito che nascendo e organizzandosi per spendere è totalmente legato al ceto politico che l’ha prodotto, vive in simbiosi con esso: si costruiscono e realizzano progetti e attività imprenditoriali semplicemente in funzione dei finanziamenti. La mano pubblica non rappresenta, semplicemente, il giusto aiuto allo start–urp ma è il carburante del ciclo. Il «ciclo imprenditoriale» non è più intrapresa, non nasce da un’idea imprenditoriale in cerca di capital venture o di aiuto pubblico in sua sostituzione – le agenzie per lo sviluppo nord-europee – attorno cui si costruiscono strumenti, piani di fattibilità e s’individuano le risorse necessarie. No!Individuati e studiati i finanziamenti e gli appoggi disponibili, si costruiscono ipotesi imprenditoriali che vivono una vita effimera che ha la stessa durata dei finanziamenti attivati. Si fa per spendere, non si spende per fare.
Dopo la stagione di tangentopoli si è – forse – rinnovata una parte del ceto politico non certo le politiche e l’agire della politica stessa. Amici e nemici, teorici e critici, del sistema parassitario sorto attorno alla spesa pubblica, si sono ritrovati assieme, senza soluzione di continuità e senzaalcuna analisi critica sul passato, a governare gran parte delle amministrazioni meridionali.
E da qui che dovrebbe partire una riflessione critica sull’incapacità manifestata dal centro-sinistra di realizzare una politica di modernizzazione, come dimostrano tutti gli indicatori economici a partire dall’ultimo rapporto della Svimez e come ci ricordano le irrisolte questioni dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani e dell’inquinamento ambientale prodotto dallo smaltimento incontrollato di quelli industriali, il riproporsi dell’emergenza idrica e l’ampliamento delle aree d’influenza territoriale della malavita organizzata.
Spesso l’azione riformatrice del centro-sinistra si è ridotta, in vaste aree del Mezzogiorno, alla gestione del potere in sé. Il degrado di una città ricca di storia come Napoli – ad esclusione del Sindaco che non vede – è sotto gli occhi di tutti. Eppure quasi nessuno sente il dovere di interrogarsi, cercare di capire gli errori e provare a trovare delle risposte.
Dopo la fase dell’antipolitica è giunta l’ora di iniziare a interrogarsi sullo svuotamento della democrazia rappresentativa e l’affermarsi – al tempo del centro-sinistra al governo – di un mix di populismo e autoritarismo che ha svuotato le assemblee elettive di ogni capacità di confronto programmatico e di controllo sulla gestione amministrativa e ridotto i partiti politici a confederazioni di comitati elettorali svuotati al loro interno da ogni elementare livello di democrazia formale e di dibattito politico.
Perfino i congressi e la definizione delle liste elettorali sono affrontati e risolti da accordi tra i capi-corrente ratificati passivamente dagli iscritti.
In questi anni abbiamo assistito all’affermarsi di forme inedite e originali di gestione del federalismo regionale. Lo svuotamento dei partiti e della loro funzione pubblica di luoghi di aggregazione, elaborazione e partecipazione politica e l’emergere dell’antipolitica, spesso camuffata da "società civile”, ha favorito un meccanismo che ha spostato l’asse dell’azione politica dalla pratica del governo dei processialla loro gestione amministrativa.
Il rapporto diretto del leader con la "società civile” e la rinuncia alla funzione propria della politica –scegliere interessie soggettida rappresentare ed esercitare la funzione del governo – a favore di una prassi che ha favorito la distribuzione capillare e indifferenziata di risorse pubbliche, ha costruito un sistema originale di «democrazia senza progetto» nel quale il non-governo produce un forte aumento del consenso elettorale.
Inoltre il passaggio dalla politica delle scelte alla politica della spesa ha depotenziato l’opposizione, in parte l’ha assorbita, e ha ridistribuito i pesi specifici all’interno della alleanza. In questo contesto i partiti meglio organizzati nella gestione della spesa pubblica hanno consolidato e ampliato le loro aree di consenso. Allo sfascio della sanità pubblica fanno da contraltare le ottime performance elettorali dei suoi gestori. La forte capacità progettuale manifestatasi nel settore dei trasporti non inficia il ragionamento svolto. Infatti, il settore dei trasporti è un comparto nel quale per spendere bisogna necessariamente programmare.
In questo contesto di afasia – nel quale anche la cosiddetta società civile vive di consulenze, favori e cooptazioni – è arduo riaprire una discussione sulla Questione meridionale e definire una possibile via d’uscita ma è giusto provarci.
La ripresa di una politica per lo sviluppo del Mezzogiorno deve partire da una considerazione di fondo: la necessità di avere politiche complementariper lo sviluppo del Sud. Politiche regionalidi sostegno ai sistemi locali e, simultaneamente, politiche nazionalifinalizzate alla crescita del sistema meridionale. Non è praticabile né perseguibile nessuno sviluppo duraturo del meridione senza un parallelo sviluppo delle attività produttive e dei sistemi locali.
Inoltre, l’insieme di queste politiche va declinato nell’ambito di una politica nazionale ed europea per il Mediterraneo, politica nella quale, attualmente, il ruolo delle regioni meridionali e del sistema Paese è marginale.
Le regioni meridionali devono fare sistema, promuovere una cabina di regiacomune per la gestione dei fondi europei, costruire un coordinamento,inteso come iniziativa non effimera, che rifugga da una logica politica contingente –costruire una forza di pressione nei confronti del governo centrale per aumentare la disponibilità di spesa –bens’finalizzata all’apertura di un confronto programmatico e un coordinamento delle politiche per superare le deficienze e le storture di una politica nazionale che, a destra come a sinistra, reputa il Sud una questione oramai marginale, privando il Paese intero di una grande opportunità di sviluppo.
Le politiche di sviluppo del Mezzogiorno, pur a fronte delle ingenti risorse finanziare messe in campo, non hanno prodotto, nel tempo, in duraturo sviluppo industriale perché, al di là delle cause del loro insuccesso, in ogni caso non erano politiche efficaci. Inoltre, possiamo affermare che le politiche (giuste) a sostegno dello sviluppo locale, pur avendo prodotto buoni risultati, sono state di per sé insufficienti a risolvere in modo esaustivo i problemi di crescita del Meridione: piccolo è bello, però nel nostro caso non sufficiente a innescare processi di crescita virtuosi.
Che fare? Il movimento ambientalista ha creato un neologismo efficaceper indicare una nuova prospettiva anche al movimento neomeridionalista: pensare giocaleche, nell’era dell’economia della conoscenza e delle reti, significa ricollocare concettualmente la questione meridionale sia rispetto all’attuale fase di sviluppo del capitalismo nazionale e internazionale sia rispetto alle dinamiche dei vari sistemi locali e territoriali e alle loro vocazioni.
La politica pensa che l’Italia possa ancora giocare un ruolo nella produzione di merci e, se s’, quali produzioni si vogliono sostenere? Come si pensa di acquisire know–how e realizzare politiche che favoriscano la verticalizzazione dei cicli anche attraverso una seria politica per la ricerca e l’innovazione? Dove si pensa di localizzare i centri d’eccellenza e in quali settori?
La questione industriale è una questione nazionale che, se e quando si deciderà di affrontarla, coincide in massima parte con la questione occupazionale(i tassi di disoccupazione) che èquestione meridionale(i disoccupati e le aree di sviluppo).
Se non si vuole perdere la sfida della modernità, bisogna scegliere, con coraggio, la strada meno facile: dispiegare un’iniziativa programmatica che non sia la mera sommatoria dei singoli problemi e delinei, invece, una prospettiva programmatica per il Mediterraneo, valida per il sistema Italia, colmando, per questa via, un deficit programmatico – non esistono Paesi che innovano senza avere una propria base industriale – che non appartiene solo al centro-destra.
La prima questione da porsi è: qual è il baricentro dello sviluppo del Mezzogiorno? Ciò significa certamente individuare prodotti e tecnologie ma, anche, in primo luogo, relazioni e reti d’interscambio.
Il Sud non può, realisticamente, giocare un ruolo nelle dinamiche europee, alla luce delle scelte già effettuate dalle economie forti di privilegiare l’Est Europa, senza cambiare prospettiva strategica, definire nuovi paradigmi.
Il Sud, cambiando prospettiva, scegliendo di ripartire dal Mediterraneo, può giocare un ruolo formidabile di baricentro sistemico rispetto alle politiche d’interazione tra l’Europa e il bacino medio-orientale e del nord dell’Africa. La Questione meridionale va ricollocata all’interno della proposizione della Questione Mediterranea, dove non solo il Meridione d’Italia può giocare un ruolo di catalizzatore e promotore di risorse materiali e immateriali, ma può trovare anche, in una logica di cooperazione e scambio egualitario, una possibile dimensione territoriale verso cui indirizzare il proprio sviluppo.
Il primo punto da cui partire per costruire le condizioni per una siffatta prospettiva è la riforma in senso federalista dell’attuale assetto statuale.
Bisogna aprire un dibattito strategico su questo tema, a partire dalla constatazione che l’attuale suddivisione delle regioni è un ambito anguste e insufficiente per il dispiegarsi di una politica nazionale per il Mezzogiorno. Per questo, prima di discutere di procedure e deleghe, bisogna definire meglio gli ambiti istituzionali, ripartendo dalla discussione sulla macroregione meridionale, proposta, a suo tempo, dallo studio puntuale, preciso e ancora attuale della Fondazione Agnelli. Intanto si può pensare a forme di coordinamento interregionale, a partire dall’utilizzo comune dell’ultima trance di finanziamento europeo – il Por 2007–2013 – che andrebbe finalizzato alla risoluzione di alcune questioni strutturali e, nello stesso tempo, all’individuazione degli assi su cui puntare per rendere competitivo l’insieme del Mezzogiorno, trasformandolo da entità geografica depressa a sistema territoriale integrato.
Abbiamo bisogno d’interventi che in primo luogo valorizzino al meglio le preesistenze come risorse da cui partire per realizzare uno sviluppo duraturo modellando il territorio come luogo dove intrecciare funzioni e risorse, realizzando sinergie e convenienze tra esse e non invece impermeabilità e incomunicabilità tra i vari sistemi, producendo entropie e danni in alcuni casi irrimediabili cos’come per troppo tempo è successo.
Non può essere ulteriormente ritardato l’avvio di un processo che trasformi il nostro territorio in luogo in cui sorgano e si attrezzino centri di accoglienza di eccellenze in grado di realizzare e supportare iniziative industriali, produttive, di servizio da offrire ai sistemi locali, sapendo che l’ancoraggio non sarà garantito eternamente: sarà il mercato a determinare la crescita dei vari sistemi produttivi, per questo l’integrazione e l’intreccio dovranno essere implementate nel tempo con capacità operative e professionali diffuse sul territorio che sono ancora tutte da costruire. Queste politiche territoriali dovranno essere programmate in funzione di un’azione di stimolo e attrazione nei confronti del mondo imprenditoriale nazionale e internazionale.
Sarà necessario per questo ricercare e formare tecnostrutture esperte di sistemi locali dotate di risorse economiche e competenze tecnologiche che le pongano nelle condizioni di riconoscere, identificare, programmare e risolvere urgenze e bisogni di strutture e infrastrutture per l’accoglimento di singoli insediamenti, singole aziende, singole imprese.
Un sistema territoriale per realizzare competitività deve garantire una serie di accessi agevolati e di qualità, tra questi il sistema infrastrutturale immateriale rappresenta uno dei principali fattori di competitività economica e di sviluppo.
Inoltre, sulle opportunità di concorrenza e di allocazione di nuove attività gravano pesantemente gli indicatori relativi all’efficacia politica, frenata ancora dall’eccessivo peso della burocrazia e da un’elevata percezione di rischio corruzione e, infine, ma non per ordine d’importanza, i bassi livelli di sicurezza e gli alti tassi di criminalità.
E inutile nascondere la differente distribuzione sul territorio nazionale, per quantità e qualità, della rete infrastrutturale: il Nord rappresenta, da solo, quasi il 65% dei valori nazionali.
Il Mezzogiorno resta penalizzato e mortificato da questo evidente e rilevante squilibrio e occorre attuare immediatamente una politica d’investimenti e di utilizzo di risorse per recuperare le evidenti differenze tra queste parti del Paese.
Il sistema di finanziamento pubblico che negli anni passati ha investito in questo ambito ha privilegiato esclusivamente l’infrastrutturazione materiale e ha prodotto numerose dispersioni e distrazioni di capitali tali da realizzare un sistema apparentemente ricco ma funzionalmente caotico e non equilibrato: sia per quanto concerne la sua estensione a rete o di dislocazioni puntuali sul territorio in rapporto alle esigenze di accessibilità fisica, sia per quanto riguarda la possibilità di utilizzazione delle diverse modalità di trasporto e comunicazione in rapporto alle loro caratteristiche; tanto che oggi s’impone una riorganizzazione e una razionalizzazione dell’intero sistema di mobilità fisica delle cose e delle personee va riprogettato quello della mobilità immateriale delle risorse.
Il Mezzogiorno si trova ancora ad affrontare questioni nate all’indomani dell’Unità d’Italia, quando, nel tentativo di disgregare culturalmente, politicamente, economicamente e socialmente l’ex Regno delle due Sicilie, sono state attuate una serie d’iniziative che hanno sradicato antichi rapporti territoriali. Si pensi solo al fatto che la Puglia, regione storicamente legata a Napoli, è stata lentamente e costantemente portata a spostare la propria sfera di rapporti dall’asse tirrenico a quello adriatico: ancora oggi non esiste un efficace collegamento su strada o su ferro tra Foggia e Napoli o tra Bari e Napoli.
A partire da queste considerazioni una politica per il Mezzogiorno può svilupparsi individuando quattro assi di sviluppo e d’integrazione all’interno di questa realtà:
- l’asse d’integrazione tra la provincia di Napoli e la Puglia, il vecchio tragitto di Via Nazionale delle Puglie;
- l’asse d’integrazione tra il Beneventano e il Molise, il Molisannio;
- l’asse «tirrenico» che si sviluppa sul percorso Napoli-Salerno-Reggio Calabria;
- il collegamento tra Tirreno e Adriatico, attraverso Tasse Salerno, Potenza, Bari.
Le politiche territoriali dovrebbero sviluppare una razionale politici d’integrazione tra questi assi e favorire, contemporaneamente, la creazione di un insieme di reti, materiali e immateriali, per consentire l’intermobilità e l’interscambio tra gli assi e i nodi del sistema Mezzogiorno per realizzare la piena mobilità di persone e merci.
Il Mezzogiorno non ha bisogno di liberare ulteriori risorse economiche da distribuire senza un progetto, necessita, invece, di un movimento che, liberando energie politiche culturali e intellettuali, metta in rete idee e persone, trasformandole in un soggetto politico che assuma la Questione meridionale come l’asse della propria iniziativa programmatica e si faccia promotore di un’interlocuzione nazionale con le forze economiche e sociali disponibili a individuare i punti di forza e d’eccellenza da cui partire per costruire un patto di sviluppo del Paese a partire dalla risorsa Mezzogiorno.
La stretta interconnessione fra lo sviluppo del sistema insediativo e l’infrastrutturazione del territorio si può facilmente cogliere ripercorrendo le varie fasi del processo di urbanizzazione in Campania. L’interdipendenza fra lo sviluppo della rete infrastrutturale e il sistema insediativo è particolarmente evidente lungo alcuni itinerari che costituiscono dei veri e propri assi di sviluppo residenziale e industriali, con consistenti fenomeni di congestione e degrado.
L’intervento infrastrutturale non è stato comunque integrato da una modificazione dei ruoli e da una riqualificazione degli insediamenti esistenti, per cui la sola infrastrutturazione non è riuscita a trasformare il sistema insediativo gerarchico esistente in uno a rete anzi, talvolta, il tipo d’infrastrutture costruite, a scorrimento veloce e con scarsi rapporti con l’ambiente, non ha fatto altro che provocare fenomeni di degrado del territorio che hanno accentuato la mancanza di qualità urbana e ambientale * e quindi lo squilibrio fra tali aree e il capoluogo.
Per ridurre questi fenomeni, va realizzata la rete di sistema dove tutti i sottosistemi (mobilità su ferro, sistema stradale, porti, aeroporti, interporti, reti telematiche) siano pensati in uno individuando, senza gerarchie funzionali, punti d’interconnessione che non rappresentino un intervallo o una rottura del sistema ma luoghi di scambio tra mobilità realizzando, di fatto, una continuità a oggi inesistente.
Quanto detto vale per tutto il Mezzogiorno: il potenziamento delle reti e dei nodi di collegamento immateriale costituisce un elemento strategico essenziale per attuare un programma d’interventi per lo sviluppo perché le reti immateriali sono un’infrastruttura essenziale per la produzione, il lavoro, il commercio, la cultura, l’istruzione, lo studio e il tempo libero.
Nell’economia della conoscenza la qualità e la diffusione delle reti telematiche e la presenza di capitale sociale diffuso sono gli elementi che, non solo offrono la possibilità di superare le gerarchie territoriali che la Mobilità fisica invece imponeva, determina le opportunità di crescita di un’area.
In un mondo che richiedeva “la presenza fisica” il Mezzogiorno giocava un ruolo marginale.
Attualmente, la richiesta di attività terziarie è focalizzata prevalentemente nell’area milanese e nel nord–est, l’inadeguatezza della rete di mobilità al Sud e la sua lontananza fisica dall’offerta di opportunità non consentiva la messa in rete delle risorse, le intelligenze e le competenze pur presenti in esso.
La rete capovolge le gerarchie: non è più importante dove sei ma, piuttosto, cosa sai fare!
Quest’opportunità per essere reale richiede l’approntamento delle infrastrutture fisiche attraverso l’adeguamento tecnologico delle reti telematiche, e la realizzazione dei supporti fisici adeguati per la trasmissione ad alta velocità delle informazioni.
L’infrastrutturazione delle reti cablate è il nuovo confine della modernità: al di là o al di qua dell’innovazione si giocheranno le nuove opportunità per i nostri giovani e per il nostro territorio.
L’affanno continuo con cui si è operato non ha mai concesso l’opportunità di attuare e affermare uno sviluppo sistemico che realizzasse il necessario intreccio tra potenzialità, risorse, qualità, bisogni e territorio.
In buona sostanza si è affermato un modello che ha impiegato una notevole quantità di risorse per la propria sopravvivenza pagando cari prezzi all’incalzare di un’economia d’impresa – sempre più esigente che ha proposto e propone una velocità d’innovazione impressionante –e all’avanzare di quell’economia globale che, profittando di una completa assenza di regole (significativa è la recente decisione di alcuni Paesi europei come la Germania e l’Inghilterra di modificare radicalmente il master book cioè il codice d’impresa), ha letteralmente stravolto le piccole e insignificanti strategie di larga parte del nostro apparato industriale.
Non è quindi sufficiente chiedere e invocare sviluppo senza tentare ditracciarne ambiti, strategie d’ingresso e obiettivi. Sarà necessario affermare e praticare un approccio sistemico alle diverse realtà.
Il profilo di una moderna politica riformista, quindi, si misura a partire dalla sua capacità di porre al centro del dibattito politico il Mezzogiorno.
La sinistra ha la necessità di ricostruire una presenza credibile nel Mezzogiorno. I punti programmatici da offrire alla discussione devono essere pochi e chiari; prefigurare soluzioni, non sommare problemi; consentire una concentrazione rilevante di risorse umane e finanziarie per realizzare le necessarie masse critiche capaci di innescare un circolo virtuoso di sviluppo e di modernizzazione.
Le regioni meridionali sono afflitte, in modo omogeneo, dal problema dell’illegalità e dell’inefficienza della pubblica amministrazione che, insieme, costituiscono il più forte disincentivo agli investimenti nel Mezzogiorno. L’illegalità diffusa trova la ragione prima della sua espansione e il suo alimento, nell’assoluta assenza d’ordinarietà, fruibilità e certezza dei diritti. L’efficacia e all’efficienza delle procedure ordinarie della pubblica amministrazione a tutti i livelli sono lo strumento per garantire ai cittadini e al sistema delle imprese trasparenza, certezza delle procedure ed equità.
Una siffatta politica non produce risultati spendibili nel breve periodo, va al di là della scadenza di mandato, ma è la condizione prima per realizzare qual si voglia politica di sviluppo ed è la prima ragione di una politica di sinistra.
Il controllo del territorio in vaste aree del Mezzogiorno continua a essere monopolio delle organizzazioni criminali, eppure gran parte delle amministrazioni locali e regionali del Mezzogiorno – escluso la Sicilia – sono governate da alleanze di centro–sinistra. Nonostante ciò, non è partita una grande opera di contrasto alla malavita attraverso il ripristino dell’ordinarietà, per portare anche al Sud lo Stato, inteso sia come insieme di norme esigibili che regolano la convivenza civile sia come certezza nazionale di fruibilità di diritti unici e inalienabili ed esigibili a Napoli come a Milano.
Assistiamo, invece, all’affermarsi di una sorta di gattopardismo di tanta supposta sinistra, radicale a Roma e, salvo alcune lodevoli eccezioni, subalterna e silente ai “mediatori” nel Mezzogiorno, anzi spesso essa stessa mediatrice.
Le politiche di sostegno allo sviluppo locale hanno privilegiato una logica di sostegno indifferenziato al sistema delle imprese, che spesso non ha prodotto risultati efficaci. Bisogna cambiare pagina: è necessario passare a una politica di tutela e di sostegno alla singola realtà produttiva, per assisterla in un proprio percorso di crescita, attraverso l’offerta di servizi innovativi e una mirata politica di accompagnamento.
Questa politica potrebbe essere affidata a un’agenzia governativa interregionale che realizzerebbe le necessarie economie di scala e d’integrazione, necessarie per accompagnare le imprese e i sistemi locali di sviluppo nelle loro politiche d’integrazione e presenza sui mercati internazionali.
Una politica di concertazione meridionale, pena il suo fallimento, deve essere in grado di individuare anche dove sia più conveniente allocare una determinata produzione, ragionando non in un’ottica localistica bensì di sistema, come rete di opportunità, altrimenti una politica di sviluppo coordinata non dispiega i suoi effetti virtuosi sull’ambiente.
In assenza di una politica nazionale per lo sviluppo, anche quando si portassero a termine tutti questi processi, essi, di per sé, non sarebbero sufficienti a risolvere i problemi del Mezzogiorno.
Il Paese ha bisogno di una politica nazionale ma non centralistica che sappia intrecciare il problema del Mezzogiorno con quello di una politica di contrasto al suo declino industriale.
Per politica nazionale intendiamo una politica governativa che definisca un insieme di opportunità in grado di attivare un circolo virtuoso di crescita coerente con gli obiettivi strategici di riorganizzazione dell’apparato produttivo nazionale. Fermo restando la libertà di intraprendere degli agenti economici la politica dovrebbe definire, attraverso la leva della spesa e quella delle commesse pubbliche, ambiti, settori e attività coerenti con i progetti di ricollocazione produttiva del Paese e sostenerli adeguatamente. E quanto l’Amministrazione Clinton, sotto l’impulso di Al Gore, ha fatto negli Stati Uniti d’America – la patria del liberismo economico – attraverso il progetto delle autostrade digitali, ha orientato il mercato e la produzione attraverso la spesa, per realizzare la necessaria massa critica di concentrazione di attività innovative, riconquistando la leadership mondiale dell’innovazione.
La residualità della presenza industriale nazionale e meridionale, paradossalmente, ci mette nelle condizioni di poter osare una vera politica dell’innovazione che sappia intrecciare la lotta al degrado del territorio con la valorizzazione delle risorse naturali materiali e immateriali e con politiche di sviluppo sostenibili e innovative.
Si dovranno riannodare i fili di quel mare in tempesta che separa lavoro e formazione virando con decisione verso lidi che altrove sono stati ampiamente sperimentati come quello della formazione continua (negli Stati Uniti la formazione continua raggiunge mediamente l’ottantacinque percento dei lavoratori, in Europa il quarantasette per cento, in Italia il venticinque per cento dei lavoratori).
Un sistema formativo efficiente, però, si può realizzare solo in presenza di un sistema scolastico efficiente e su questo dovremo iniziare a discutere perché è sotto gli occhi di tutti, pur in presenza di lodevoli eccezioni, il degrado complessivo del nostro sistema scolastico.
Per invertire questa tendenza si dovranno realizzare contatti e contiguità tra il mondo dell’istruzione e quello del lavoro. Saranno queste le premesse indispensabili affinché lentamente, e purtroppo in ritardo, tutto il sistema meridionale possa avviarsi verso quello che viene definito «sviluppo sostenibile». Tuttavia esso proporrà scelte coraggiose e in alcuni casi dolorose. Non sarà più possibile continuare ad affermare, come si è fatto in passato, che tutto è da sviluppare e che tutto è strategico. Quest’approccio acritico ai temi della crescita delle aree depresse ha procurato danni, impoverito gli strumenti di sostegno che a livello centrale e locale sono stati attuati e ha esposto l’apparato produttivo agli assalti decisi ed efficaci di scelte che altrove, attuate per tempo e con efficacia, hanno determinato la leadership vera d’interi sistemi nazionali e sovranazionali.
Lo sviluppo sostenibile non è solo industrie a qualunque costo, ma anche servizi, strutture, tutela dei beni e del territorio.
Sviluppo sostenibile, non significa scuole in gran numero e dappertutto, ma insediamenti d'istruzione che sappiano leggere vocazioni territoriali e connessione con il mondo del lavoro e siano in grado di offrire la risorsa che sempre più è richiesta dal mercato: conoscenza e sapere diffuso.
Conoscenza e sapere diffuso non è formazione professionale per accogliere e intrattenere allievi in attesa del miracolo, sperperando ingenti quantità di risorse umane e finanziarie; è, piuttosto, analisi dei fabbisogni e orientamento consapevole: il sistema formativo non dovrà solo assecondare un sistema imprenditoriale che continua a ritagliarsi esigenze legate all’immediato senza porsi alcuna prospettiva di qualità e di sfida, sarà necessario orientare l’utenza e qualificare formatori e ricercatori della formazione per attuare progetti e modelli formativi puntando all’integrazione tra aspettativa di lavoro e qualificazione professionale agendo sui fattori dell’occupabilità.
Lavorare per la qualità del territorio inteso come bacino in cui interagiscono coerentemente e armonicamente preesistenze, reti – materiali, virtuali – e sistema finanziario può realizzare un’inversione di tendenza al sistema di degrado ambientale, produttivo e sociale verso cui abbiamo una responsabilità morale e politica cui non possiamo abdicare.
Un terreno su cui l’Italia parte svantaggiata, per effetto del suo ritardo nell’affrontare la questione, è quello delle politiche energetiche.
L’Italia ha un deficit energetico strutturale considerevole anche perché negli anni scorsi non ha compiuto le scelte necessarie a superare questo gap. Paradossalmente questa situazione ha un aspetto positivo: sul piano delle tecnologie non abbiamo compiuto scelte irreversibili, come ad esempio la scelta del nucleare. Questa situazione ci offre la possibilità di puntare da subito sull’idrogeno e le fonti rinnovabili.
Le regioni meridionali devono candidarsi a essere uno dei luoghi naturali deputati alla sperimentazione delle tecnologie legate all’idrogeno e alle fonti rinnovabili. Una nuova politica energetica deve porre al centro della iniziativa pubblica il sostegno alla ricerca pubblica e privata anche attraverso una forte integrazione tra il sistema universitario meridionale, quello della ricerca e quello delle imprese anche attraverso una politica di spin-off.
Il Mezzogiorno deve porre con forza il superamento dei guasti prodotti da una politica che ha privatizzato i monopoli pubblici ovvero, ne ha trasferito la proprietà dallo Stato ai privati, mantenendone inalterate le loro caratteristiche monopolistiche a discapito dell’economicità e dell’efficienza del servizio. Rinunciando alla liberalizzazione delle reti e alla loro pubblicità si è determinata una situazione anomala: i gestori delle reti, attraverso politiche di dumping, sono competitori sleali nei confronti degli altri produttori di servizi.
Per superare il divario Nord-Sud nei servizi ad alto valore aggiunto, le regioni meridionali devono lanciare un proprio progetto che, a partire dalle telecomunicazioni, dove maggiore è il divario territoriale, punti alla realizzazione di reti pubbliche, separando, finalmente, la gestione e la manutenzione della rete da quella dei servizi attraverso, ad esempio, un consorzio tra fornitori di servizi e regioni per cablare in fibra ottica tutto il territorio meridionale. Si costituirebbe, così, un mercato potenziale di dimensioni notevoli, che supportato da un’adeguata politica tariffaria, favorirebbe anche la nascita di nuove imprese e di servizi ad alto valore aggiunto.
Il consistente patrimonio archeologico, monumentale e culturale del Mezzogiorno è la base di partenza su cui sviluppare una politica del tempo libero che superi l’idea del sostegno al turismo inteso come aiuto alla costruzione di alberghi e ristoranti e inizi, invece, ad affermare un idea del turismo inteso come crossover di tecnologie e risorse che ponga in rete risorse materiali e immateriali che trasformi il Mezzogiorno in un enorme parco a tema integrato, e assuma il turismo come elemento trasversale alle politiche di sviluppo alle quali finalizzare un intervento a tutto campo: sostegno al commercio elettronico di prodotti tipici, costruzione di siti web, digitalizzazione del patrimonio ecc.
Le preesistenze rilevanti nella ricerca biomedicale e dell’ingegneria genetica sono una base su cui è possibile reindirizzare e concentrare un’intuizione giusta come i Centri di competenza per candidare il Mezzogiorno e la Campania in particolare al ruolo di Polo nazionale della ricerca nel settore.
Porre la questione meridionale nell’ambito della questione del Mediterraneo significa anche individuare settori strategici, a partire dall’agroindustria e dalla gestione delle acque (desalinizzazione e potabilizzazione), sui quali costruire una politica di cooperazione tra i Paesi mediterranei. Il rilancio internazionale dell’Italia passa attraverso una politica nazionale per il Mezzogiorno.
Le Università meridionali, coordinandosi e operando in sinergia, potrebbero sviluppare un progetto di lungo periodo, foriero di risultati positivi, anche per una politica di pace, potrebbe essere rappresentato dalla costituzione di un Istituto Universitario del Mediterraneo, a carattere residenziale, sul modello dei college, per aiutare la formazione di una classe dirigente mediterranea cosmopolita.
«L’Italia rappresenta il paese mediterraneo per eccellenza: un promontorio dell’Europa lambito dal mare nostrum; un passato e una storia fortemente caratterizzati da una presenza marittima; una civiltà di cui l’arte, più che nessun’altra, riflette la luce del Sud. Si presenta anche come uno stato da tempo privo di una visione mediterranea coerente; una politica molto più rivolta all’entroterra continentale che alle proprie sponde e a quelle vicine. E un Mediterraneo che trascura la propria mediterraneità. L’immagine che offre oggi il Mediterraneo non è affatto rassicurante. La sua sponda settentrionale presenta un ritardo rispetto al suo retroterra europeo. L’Unione Europea si è compiuta ma, senza tenerne conto: si e occupata dell’“Altra Europa”. Si costituiva in gran parte un‘Europa separata dalla sua “culla”. Le spiegazioni che sono state date, banali o ripetitive, non riescono a convincere coloro ai quali sono dirette. Non ci credono forse neanche quelli che le propongono. Le decisioni relative al Mediterraneo vengono prese al di fuori di esso o senza di esso: ciò genera frustrazioni e fantasmi»1. Quindi se la Questione meridionale diventa Questione Mediterranea, allora, forse, siamo entrati di nuovo in sintonia con i processi della storia e potremmo finalmente operare per chiudere, in modo definitivo, la ferita che si è aperta, all’indomani dell’Unità d’Italia, tra il Sud e il resto del Paese quando, in realtà, il Regno delle due Sicilie fu annesso al Regno sabaudo, e aprire, invece, una fase di “unità nazionale”, un nuovo patto tra Nord e Sud del Paese per rilanciare il ruolo dell’Italia in Europa e nel Mediterraneo.
1 Petrag Matvejevic, La rotta obbligata del promontorio d’Europa, in PD, n. 0, ottobre 2007.
[Archivio storico del Sannio, n. 2, luglio-dicembre 2007, Napoli, 2008, Edizioni Scientifiche Italiane]