33 anni fa veniva inaugurata la fabbrica che avrebbe cambiato il volto industriale della Campania e dell’intero Mezzogiorno. Produceva l’auto per il nuovo ceto medio italiano. Oggi deve sfidare i colossi internazionali.
Era un bellissimo giorno dell’estate del 1966 quando Giuseppe Luraghi, presidente dell’Alfa Romeo radunò il suo team di progettisti, i migliori disponibili, per comunicargli che il governo di centro-sinistra aveva dato via libera al progetto Alfasud. Fu così che Rudolf Hruska, un esperto progettista austriaco che aveva lavorato in Volkswagen e Porsche, ebbe il compito di costruire uno stabilimento per produrre berline di cilindrata medio-alta (1200 cc) con forti innovazioni di stile e di tecnica.
Il progetto stilistico fu affidato a Giugiaro e il motore era con cambio a cinque marce ed una innovativa struttura a sogliola.
La costruzione dello stabilimento ebbe inizio nel 1968. Nel 1972 andò in produzione la prima vettura, l’Alfasud 1200. La fabbrica fu inaugurata dal Primo Ministro, Emilo Colombo, che rispondendo ad una domanda di un dipendente assicurò che quello stabilimento non sarebbe mai diventato una cattedrale nel deserto, bensì una realtà produttiva vera.
Lo stabilimento, nei piani dell’azienda, doveva attestarsi su una produzione di 572 vetture al giorno e, a regime, occupava quindicimila addetti, provenienti in gran parte da industrie dell’hinterland napoletano in crisi (Manifatture Cotoniere Meridionali, Saffa, Fonderie napoletane) e dai disoccupati storici provenienti dall’intera regione, per effetto della riforma del collocamento che prevedeva l’avviamento numerico.
Le difficoltà furono subito evidenti: gli obiettivi produttivi non furono mai raggiunti, in primo luogo per l’eccessiva rigidità del processo produttivo che non prevedendo accumuli tra le varie fasi del ciclo, determinava l’interruzione a cascata della produzione a fronte di qualsiasi incidente in qualsiasi fase.
A tutto ciò si aggiungeva la scarsa capacità adattativa al lavoro a “catena” da parte di operai abituati ad un lavoro non parcellizzato.
Si evidenziarono subito gravi problemi nel processo produttivo nelle aree di stagnatura e di verniciatura derivanti da una insufficiente ingegnerizzazione del flusso organizzativo (bagno e pulitura della scocca) che comportava una scadente lavorazione in queste due aree con un sensibile danno economico derivato dall’alto numero di scarti.
La ricerca di una soluzione portava l’azienda in rotta di collisione con i lavoratori che, attraverso il consiglio di fabbrica, volevano essere protagonisti del processo produttivo contrattando tempi, metodi organizzazione del lavoro e condizioni ambientali scontrandosi con un management impreparato a recepire il cambiamento nei rapporti sindacali.
Iniziò, in concomitanza con il contratto di lavoro, un lungo periodo di conflittualità, che per l’esasperazione delle articolazioni di sciopero fu definito “microconflittualità”.
Questa situazione alimentò un disagio dei lavoratori che si tradusse in forme di assenteismo che raggiunsero livelli insostenibili, fino al 35%, per il normale svolgimento delle attività produttive.
In quegli anni cominciò una feroce campagna di stampa che utilizzò il “caso Alfasud” per teorizzare l’impossibilità di un processo duraturo di industrializzazione del Mezzogiorno e, quindi, l’inutilità dell’intervento straordinario e della politica meridionalista delle Partecipazioni Statali.
Il sindacato articolò un proprio piano di rilancio dello stabilimento attraverso l’utilizzo degli impianti su sei giorni per diciotto ore che prevedeva un aumento del monte ore lavorato e una riduzione dell’orario giornaliero dei singoli lavoratori a sei ore giornaliere, il cosiddetto “6x6” che fu bocciato in un’animata assemblea che vide la partecipazione di Lama e Benvenuto.
I problemi di organizzazione del ciclo di stagnatura e verniciatura furono infine superati, nel 1976, con la realizzazione dei nuovi reparti.
Lo stabilimento risolve le proprie difficoltà nel momento in cui il mercato automobilistico subisce forti contrazioni per effetto della crisi petrolifera del 1974 che comporterà per tutti i produttori mondiali la necessità di misurarsi con processi di economie di scala e razionalizzazione dei mercati e delle produzioni che porteranno ad una significativa e profonda ristrutturazione dei modelli, del ciclo, delle produzioni e dei volumi di vendita verso il basso.
Il nuovo quadro emerso dalla crisi petrolifera segnerà da prima la morte della joint-venture con la Nissan, che aveva visto la realizzazione di un nuovo stabilimento al Sud, Pratola Serra, prematuramente chiuso e la fine della presenza di Finmeccanica nel settore automobilistico con la cessione, praticamente gratuita, dell’Alfa alla Fiat.
L’Alfasud, immaginata come punta di diamante di una politica espansiva della produzione nazionale di automobili, diventa uno dei tanti problemi che l’integrazione tra Alfa e Fiat, lascia irrisolti.
L’integrazione tra le realtà produttive di Fiat e Alfa porta alla costituzione di una nuova società, l’Alfa-Lancia SpA, che ingloba gli stabilimenti automobilistici di Pomigliano, Avellino, Arese e Portello e la fabbrica di componentistica di Livorno, Spica.
La nuova società eredita quindicimila e cinquecento addetti, di cui circa tremilacinquecento in cassa integrazione. La Fiat disarticola lo stabilimento di Pomigliano, segmenta il ciclo produttivo, attraverso la costituzione di micro unità produttive (OPA) nell’area provinciale.
Le aree liberate dalle attività portate all’esterno saranno utilizzate per modernizzare il processo produttivo e consentendo la costruzione di un moderno ed innovativo reparto di verniciatura, che finalmente risolve anche i problemi ambientali presenti sin dalle origini.
Il processo di esternalizzazione delle attività produttive e l’introduzione di processi spinti di automazione hanno consentito all’azienda la costante e continua diminuzione dei dipendenti che sono oggi attestati su circa ottomila addetti.
Il rilancio produttivo dello stabilimento avviene con la politica di rilancio del marchio Alfa e contestualmente allo spostamento del baricentro delle attività produttive da Arese a Pomigliano attraverso la messa in produzione della gamma 145, 146 e 156.
Simbolicamente, la nuova gamma ratifica l’avvenuta emancipazione dello stabilimento di Pomigliano che diventa una delle realtà produttive strategiche del gruppo Fiat nella gamma alta di mercato e l’unico stabilimento Alfa Romeo in attività.
In questo contesto trova una sua collocazione anche Pratola Serra dove vengono concentrate buona parte delle produzioni motoristiche del gruppo Fiat.
Lo stabilimento erede dell’Alfasud continua nel processo di consolidamento del suo ruolo attraverso la messa in produzione di nuovi modelli tra cui la 147 e la Sprint e, con l’ingresso in azienda di nuovi assunti, si chiude positivamente un ciclo passato anche attraverso forti sacrifici occupazionali.
Oggi, lo stabilimento di Pomigliano rappresenta il luogo produttivo d’eccellenza di un marchio prestigioso e rappresenta un patrimonio irrinunciabile per la regione Campania.
Nell’ambito della discussione in corso sugli assett produttivi del gruppo Fiat e della necessaria politica di alleanza le forze politiche, sindacali ed istituzionali della regione devono lavorare per salvaguardare questa significativa presenza.
(ha collaborato Peppe Biasco)
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