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La relazione di Luca di Montezemolo all’assemblea della Confindustria è stata letta come un ritorno allo “spirito del ‘93” e una sconfessione della gestione D’Amato. Faremmo un cattivo servizio a Montezemolo giudicando il suo intervento solo come un cambiamento di metodo nella gestione delle relazioni sindacali. Il ragionamento di Montezemolo rappresenta una sfida da raccogliere, definisce nuovi paradigmi e propone una visione dello sviluppo radicalmente alternativa al modello di D’Amato quando afferma che: «Esiste un momento, nella vita di ciascuno di noi… in cui occorre restituire qualche cosa di quello che abbiamo avuto. E noi, come imprenditori e come cittadini di questo Paese, abbiamo avuto molto. Spetta a noi rifiutare la logica del declino…
Affrontando la concorrenza che c’è. Innovando i nostri prodotti. Investendo in ricerca ed in nuove capacità produttive che ci consentano di stare sul mercato… Ogni calo di tensione danneggia il nostro Paese e impoverisce i nostri figli. Quello che abbiamo, recita un antico detto, lo abbiamo in prestito da loro».
Coerentemente con la scelta di puntare sull’innovazione l’area asiatica è vista non già come un concorrente da contrastare attraverso la compressione dei salari bensì come mercato di sbocco per merci ad alto valore innovativo. Anche perchè un «mercato che si allarga non è solo un mercato di esportazione.
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Il movimento sindacale e la Cgil in particolare ha segnato in modo significativo il Novecento per la capacità che ha avuto, al di la delle divisioni che pure hanno caratterizzato la sua storia, di emancipare le massa popolari e portarle pienamente, da protagoniste sulla scena della vita politica e sociale del Paese.
Nella storia del sindacalismo italiano il movimento meridionale ha giocato un ruolo importante ma spesso sottovalutato.
Il movimento sindacale meridionale si sviluppa, alla fine dell’Ottocento, su basi solidaristiche e con una forte connotazione autonoma e urbana attraverso una delle prime forme generali di organizzazione del movimento dei lavoratori: le Camere del Lavoro.
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All’indomani delle elezioni è iniziata la solita interpretazione dei voti in cui nessuno dichiara di aver perso e tutti affermano di aver vinto. La cosa che colpisce di più in questo clima è la subalternità dei partiti, e dei loro leader, ai temi e alle interpretazioni delle forze mediatiche che spesso si configurano come dei veri e propri giornali-partito portatori di proprie linee politiche a cui piegano l’interpretazione della realtà e l’affermano come “la realtà”. L’obiettivo di questa breve nota – che chiudo in data 4 giugno – è di offrire un terreno comune, i dati nudi e crudi, a quanti sono affezionati al destino della sinistra.
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Sembra significativo che, nella discussione da tempo aperta sui destini dell’area napoletana – a partire dal contributo critico dato, nel 1976, dal n. 65 dalla rivista dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, “Urbanistica”, interamente dedicato a Napoli – per la prima volta una Giunta comunale offre al confronto un documento di indirizzi che non presenta le caratteristiche dello “strumento” vincolante, della “Variante generale al Piano Regolatore Generale (PRG).” o, peggio, del ridisegno complessivo della città affidato ai palazzinari ed offerto alla città, in una denuncia sullo stato dell’urbanistica cittadina fu adottata la definizione di urbanistica dei promotori1.